Il titolo originale è semplice: Sir, signore, come il protagonista Ashwin, il giovane e ricco uomo di Mumbai per il quale Ratna (Tillotama Shome) lavora a Mumbai. Il titolo italiano punta l’accento, invece, su Cenerentola, la ragazza che proviene da un villaggio e lavora, come donna di servizio, in città per il ricco uomo. Ma, a differenza di Cenerentola, Ratna non cerca marito. È una giovane vedova, “incastrata” nel passato dai suoceri in un matrimonio destinato a durare poco a causa della malattia (celata) e della conseguente morte del loro figlio.
Per ora Ratna vive nel villaggio: Ashwin dovrebbe essere in luna di miele. Finirà presto perché i due giovani sposi scoprono di possedere la stessa casta, ma non lo stesso amore. Ratna, perciò, ritorna in città e si ritrova davanti un uomo senza voglia, soffocato dalle visite della madre e dai regali ancora non aperti del matrimonio. In casa la presenza di Ratna è quella di una discreta cameriera. Sa far tutto ma lei sogna di diventare una stilista perché ama cucire e confezionare abiti. Come la camicia che ha preparato per Ashwin nel giorno del suo compleanno.
L’azione del film si svolge, per la maggior parte delle scene, dentro un appartamento. In un solo spazio convivono due mondi: quello del “sir” bello, spazioso, arioso, quello della cameriera, angusto, esiguo, privo di finestre. Tanto che Ratna, per respirare e immaginare, sale sul terrazzo dell’appartamento da dove si vede tutta la città di Mumbai. Terrazzo di cui Ashwin non si è mai interessato e forse, non ha mai avvertito, il bisogno di esplorare.
Per comprendere pienamente Sir – Cenerentola a Mumbai, che non può essere letto semplicemente come una favola contemporanea, occorre entrare dentro, a piedi scalzi, dentro quelle dinamiche ancora vigenti dove le caste in India delimitano la libertà individuale. Nessuno in India, avverte la regista Rohena Gera (al suo primo film di finzione che è stato selezionato alla Semaine de la Critique nel 2018, la storica sezione indipendente del Festival di Cannes), lotta oggi per l’uguaglianza sociale delle persone provenienti da diversi ceti. Ancora oggi gli indiani accettano l’ingiustizia come una regola approvata dalla società.
Eppure i personaggi del film rappresentano due mondi diversi (chissà quanti ne esistono) che sono destinati ad attrarsi: lui, ricco, triste, di bella presenza e amato dalle donne; lei, povera (anche se mantiene economicamente i suoceri e gli studi della sorella attraverso il suo lavoro), sorridente ma non particolarmente attraente come, invece, lo sono spesso le donne indiane. I due mondi si avvicinano, ma le sovrastrutture sono e restano la loro gabbia. Certo il richiamo, in una scena in particolare, all’universo americano e universale di Pretty Woman c’è, come c’è il richiamo al talento di Coco Chanel e a un sogno professionale alla quale una donna, di modeste condizioni ma di vere attitudini, aspira.
Rohena Gera, quarantaseienne nata in India ma cresciuta a New York, conosce bene il peso “sociale” delle caste. Per questo non cerca risposte filmiche ovvie che rubano le loro origini alla struttura narrativa americana, dove la favola si conclude sempre con il lieto fine ben dichiarato. Qui il finale aperto (bellissimo) lascia respirare a pieni polmoni lo spettatore. E fa comprendere che spetta a lui la creazione di un possibile finale.
Emanuela Genovese