In una delle pellicole meno note di Ingmar Bergman, L’occhio del diavolo, il maestro del cinema svedese mette in scena la punizione infernale di Don Giovanni, costretto per l’eternità a ripetere come in un teatrino lo sterile meccanismo della seduzione che ha governato la sua vita. Per la legge del contrappasso, il successo di seduttore per cui è famoso si trasforma in un’eterna ripetizione senza esito né scopo, un supplizio di Tantalo che perde anche l’illusoria promessa di soddisfazione che aveva in terra. Lo stesso senso di condanna e di disperazione del Don Giovanni bergmaniano si percepisce anche nello sguardo del protagonista di Shame, film duro e per molti versi disturbante, un incredibile “one man show” che ha meritato al protagonista Michael Fassbender la Coppa Volpi a Venezia, la candidatura ai Golden Globes e forse prossimamente agli Oscar.,I rapporti occasionali, la pornografia consumata nel privato di casa e via Internet (anche sul luogo di lavoro), le perversioni ripetute bulimicamente nell’ansia di perdersi, anziché fornire il rimedio per il vuoto ne acuiscono il peso e allontanano la possibilità di un rapporto normale con l’altro, portando il protagonista Brandon sull’orlo di un baratro non diverso da quello in cui vive sua sorella Sissy. Tanto lui è asetticamente rintanato nella negazione di ogni rapporto reale con l’altro, quanto sentimentalmente fragile e bisognosa è Sissy, i cui tentativi di condividere un dolore che si intuisce antico vengono sistematicamente respinti dal fratello.,Il film non spiega mai esattamente cosa abbia portato i due fratelli in questa situazione (c’è solo un fugace accenno a un passato familiare doloroso), forse anche perché, nelle intenzioni del regista, questo affresco non è tanto l’analisi di un caso psicologico quanto una parabola estrema della libertà malata dell’Occidente – prigioniero di un’offerta “consumistica” e apparentemente infinita nel campo del sesso come della droga – che non può che avvitarsi nell’autodistruzione. ,Forse, sapere qualcosa di più di Brandon (la cui vita sembra limitarsi a lavoro e maratone sessuali) avrebbe aiutato a capire meglio la sua sofferenza. La materia è incandescente, il film in molti momenti diventa quasi fisicamente difficile da reggere e richiede certamente un pubblico più che maturo (da questo punto di vista il divieto limitato ai minori di 14 anni in Italia appare forse troppo generoso), dato che il regista non risparmia nulla né all’interprete né allo spettatore, ma non si può fare a meno di apprezzare la sincerità di questo grido di disperazione. Un grido che, nel finale, dal fondo dell’abisso non può infine che gridare al cielo la sua impotenza, nella speranza che la libertà torni a rivestire la propria originaria forma e si liberi dalla schiavitù di un istinto cieco e bestiale.,Laura Cotta Ramosino