Una piccola ma gloriosa azienda tessile, in un’Italia di provincia segnata dalla crisi. Questa è la Varazzi, che però in crisi non è: anzi, è una vera eccellenza italiana. Ma, forse perché ormai in là con gli anni o forse solo per “monetizzare”, i tre fratelli che l’hanno condotta fin qui hanno deciso di vendere la maggioranza della società a una multinazionale. Arriva la manager francese, tosta ed elegante, e l’incontro con i tre fratelli fila liscio, mentre il consiglio di fabbrica formato da undici donne attende di visionare l’accordo che deve scoraggiare tagli ai posti di lavoro e, fuori in strada, tutte le altre operaie e impiegate aspettano in ansia. Anche i familiari, le tv, i concittadini sono tutti in attesa. Dentro, in quella stanza, c’è anche Bianca, una delle undici donne: la rappresentante sindacale eletta da tutte loro, la più anziana ed esperta, che in quella riunione rimane silenziosa, quasi impaurita, mentre viene blandita dai tre fratelli e storici “capi” (uno, suo amico in gioventù, confessa pure un mezzo “filarino” con lei) in un modo insinuante e fastidioso. Lei è a disagio, ma poi l’accordo che le viene consegnato non contiene alcun licenziamento. E allora perché, quando scende dalle dieci compagne cui sottoporlo, ha una faccia da funerale? Perché c’è una piccola, in apparenza insignificante clausola: tagliare la pausa pranzo di sette minuti. Altri sette minuti, dopo i tanti già tagliati negli anni. Significa solo mangiare di corsa, in pochi istanti? Che problema c’è, dicono alcune compagne, tra cui le numerose straniere che vengono da paesi poverissimi? Per il lavoro, il pranzo lo si può anche saltare… Ma in gioco, forse, c’è di più in quell’accordo da firmare o da respingere anche per tutte le colleghe che aspettano fuori.

Il nuovo, undicesimo film del settantenne regista Michele Placido (anche celeberrimo attore, ma qui si ritaglia solo il piccolo ruolo di uno dei tre fratelli, insieme peraltro a due altri suoi veri fratelli, gli attori Donato e Gerardo Placido) è tratto dall’omonima opera teatrale di Stefano Massini, coautore anche della sceneggiatura del film insieme allo stesso Placido e a Toni Trupia, che si ispirava a un fatto di cronaca avvenuto in Francia (il film è una coproduzione italo-franco-svizzera, da cui l’utilizzo di molte attrici straniere). La derivazione teatrale è evidente nel film, che ricalca altre opere simili tra cui – per espressa ammissione del regista – il grande La parola ai giurati di Sidney Lumet. Come in quel film, mentre le undici donne – molto diverse tra loro – dibattono pro e contro della proposta secca dei nuovi “padroni”, si svelano tensioni, pensieri, posizioni, storie personali, ricordi. Donne che non possono andare per il sottile perché hanno un marito disoccupato e quattro figli, o sono straniere provenienti da esperienze terrificanti, o vivono altri drammi, dalla droga a un marito violento. C’è una ragazza incinta, con un parto imminente, e la madre della ragazza che l’appoggia anche se non è contenta che il padre sia un extracomunitario; e una ragazza ancor più giovane, che al primo lavoro ha ancora più paura del futuro delle altre. C’è l’unica impiegata, che in realtà era un’operaia come loro ma dopo un’incidente che l’ha bloccata su una carrozzina è stata “promossa” (ma al prezzo di una dolorosa menzogna). E c’è Bianca, che cerca di allargare la prospettiva delle loro decisioni. Qualcuna la segue, altre la osteggiano, altre ancora pongono sospetti sulla sua trasparenza: il rischio di rottura tra loro è vicino e drammatico.

Con un taglio quasi giallo e una scansione dei tempi e delle azioni convincente, ma anche con qualche tono retorico e melodrammatico di troppo, il film si fa seguire bene e risulta di estrema attualità, non solo per la situazione occupazionale odierna e per le tante aziende italiane che vivono situazioni di conflitto o di rischio. Quanto perché pone con una certa efficacia il tema della dignità personale, senza facili risposte – in fondo ogni posizione ha le sue legittime ragioni – ma evidenziando i rischi di un arretramento sul piano dei principi e del rispetto della persona e delle donne: quando una volta si rinuncia ai propri diritti, per il pur sacrosanto “posto”, poi è difficile che non seguiranno altre richieste e altre rinunce. Cosa si è disposti a fare, e a perdere, pur di lavorare?

C’è in alcuni snodi il rischio della semplificazione ideologica, e quei “padroni” sembrano un po’ macchiettistici e “tipizzati”: viene da pensare, a torto, che tutti gli imprenditori siano così, scaltri e indifferenti alle persone; quasi a riproporre una lotta di classe ormai anacronistica (ci sono piccoli imprenditori che sono piegati dalla crisi come i loro dipendenti). E, come si diceva, alcune scene troppo enfatiche (alcuni personaggi esagitati che urlano e litigano di continuo, l’impiegata che si ribalta in carrozzina, la rottura delle acque della ragazza in attesa) indeboliscono il quadro, che meritava maggior sottigliezza e meno retorica. Ma è indubbio che a tratti il tema, serio, riesca a produrre emozioni reali nello spettatore. E se perfino la prova di Ottavia Piccolo, pur molto brava come sempre, è limitata in parte da un cliché di anziana lavoratrice amara e disillusa, come altre interpreti sono costrette in ruoli respingenti o con poche sfumature (Ambra Angiolini, per esempio), spiccano però nel gruppo alcune attrici che danno grande umanità ai loro personaggi, dalla francese Clémence Poésy bravissima nel ruolo di un’albanese soggetta alle attenzioni sordide di uno dei capi a Violante Placido (figlia del regista), irriconoscibile nel ruolo dell’impiegata disabile. Fino alla sorprendente Fiorella Mannoia (incredibilmente la migliore del gruppo), cantante di classe scoperta dal cinema forse troppo tardi.

Antonio Autieri