6 settembre
Continuano ad arrivare nuovi film importanti dalla 80ma Mostra del cinema di Venezia (dal 30 agosto al 9 settembre 2023), nonché le recensioni dei nostri inviati.
È passato un altro film italiano in concorso: Io capitano di Matteo Garrone. Un film molto diverso dai suoi precedenti. Moussa e Seydou sono due cugini adolescenti del Senegal. Come a tanti loro coetanei in tutto il mondo, a loro piace la musica, il calcio, suonare le percussioni e ballare. Seydou è bravo anche a scrivere testi e sogna di diventare famoso in Europa. Per questo da mesi i due cugini mettono da parte soldi per affrontare il viaggio, nonostante la madre di Seydou sia assolutamente contraria. Partiti di nascosto, i due ragazzi già alla frontiera col Niger si rendono conto che i soldi preventivati saranno solo una parte di quello che dovranno pagare per passare frontiere, superare posti di blocco e soddisfare l’avidità di tutti quelli che si offriranno di guidarli. È un vero e proprio calvario di violenza e sopraffazione che non ha pietà di nessuno: attraversare il deserto sarà una falcidia, ma le pretese dei libici saranno ancora peggiori.
Io capitano ha il pregio di mostrare il punto di vista di chi non scappa dalla guerra o dalla fame, ma cerca semplicemente una vita migliore. Seydou e Moussa conducono una vita con pochi mezzi, ma hanno di che mangiare, vestirsi, una casa e anche la scuola. Ma quel che vedono sui loro smartphone (perché hanno anche quelli) è un sogno che sembra a portata di mano. Le privazioni, le torture, le sofferenze non annulleranno la loro umanità (resa anche da belle sequenze oniriche tipiche del regista romano), ma anche di incontrare una solidarietà inaspettata, proprio nei momenti più difficili. (Beppe Musicco)
***
Altro film sull’immigrazione, tema quanto mai d’attualità negli ultimi anni. Diciamolo subito: Green Border – sempre in gara per il Leone d’oro – è un pugno nello stomaco. Ma è una testimonianza cinematografica veramente determinante, per capire quel che sta accadendo in Europa adesso, attraverso gli avvenimenti di pochi anni orsono. La regista polacca Agnieszka Holland dimostra sempre una grande passione: il racconto di questa tragedia della fatica, del dolore, della brutalità, girata in un cupo bianco e nero, riguarda la zona di confine tra Polonia e Bielorussia, il luogo di un calvario apparentemente senza fine per chi ha avuto il destino di finirci.
Negli ultimi anni, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha consentito l’ammissione di rifugiati provenienti dal Medio Oriente, incoraggiando cinicamente la loro speranza di arrivare senza difficoltà nell’Unione Europea attraverso il confine polacco della foresta di Białowieża. In realtà la sua strategia era di punire e indebolire l’Europa per le sanzioni contro la Bielorussia. Ammettendo questi disperati e facendoli attraversare clandestinamente la frontiera polacca, ha alimentato il risentimento e l’aggressività dei polacchi, che non si sentivano in dovere di nutrire e ospitare questi immigrati, ma si limitavano semplicemente a ributtarli oltre il filo spinato del confine, costretti così a vivere (o morire) in una foresta desolata. Questa strategia di destabilizzazione del “confine verde” della Bielorussia ha così spinto la Polonia in una xenofobia paranoica.
Il dramma della Holland copre un piccolo ventaglio di figure coinvolte in questo abisso di disperazione, fame, paura e cinismo politico: rifugiati provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Africa; una guardia di frontiera polacca con una moglie incinta che si fa scrupoli per la brutalità cui viene spinto dai superiori; e una psicoterapeuta polacca inorridita alla vista della morte di un bambino rifugiato, che decide di unirsi a un gruppo di giovani attivisti che fanno incursioni nella foresta per fornire quel poco di aiuto medico e assistenza legale ancora consentiti dalla legge. Il risultato è un film cupo ma avvincente, un misto tra un film di guerra e un dramma post-apocalittico, nel quale la foresta è il posto di una disperata lotta per la sopravvivenza vissuta da persone la cui umanità è stata quasi completamente annullata, fino a renderli degli zombi. Ma il film della Holland mostra anche, paradossalmente, la faccia migliore della medaglia: quando la guardia di frontiera polacca viene mobilitata per accogliere migliaia di rifugiati ucraini che scappano dal loro paese bombardato dai russi di colpo, sembra che tutti si rendano conto dell’umanità di quelli che stanno di fronte. Nella tragedia, una speranza. (Beppe Musicco)
***
Con Priscilla – presentato in concorso alla Mostra – Sofia Coppola si cimenta in un altro biopic al femminile a quasi vent’anni da Marie Antoinette. Qui si ispira all’autobiografia di Priscilla Presley, che si è ritagliata anche il ruolo di produttrice. Si parte con il primo incontro tra i due in Germania, dove l’allora idolo delle teenagers svolgeva il servizio militare nella stessa base in cui era in servizio il padre di lei. La giovanissima Priscilla – solo 14enne – attiva Elvis, che aveva dieci anni più di lei, per la sua capacità di ascoltarlo e condividere con lui la nostalgia di casa ed è così che i due iniziano a frequentarsi nonostante le perplessità della famiglia. Anni dopo lui si farà raggiungere nella sua “reggia” di Memphis e Priscilla diventerà parte di una vera e propria “corte” di parenti e amici che ruota attorno a quell’unica stella. Per anni i due condivideranno il letto senza però consumare fino al matrimonio (ragioni anche legali, ma nel film questo diventa un’ulteriore espressione del potere psicologico che Elvis esercita sulla compagna).
Il film potrebbe fare da ideale contraltare all’Elvis di Baz Luhrmann uscito l’anno scorso, con la sua prospettiva stretta sulla dinamica di coppia, un rapporto che man mano si rivela come una relazione tossica assai simile alla dipendenza che Elvis ha nei confronti droghe e farmaci e a cui introduce la giovanissima fidanzata. Il biopic di Luhrmann potrebbe essere utile allo spettatore anche per decifrare il procedere della carriera del cantante, che lo sguardo sempre molto stretto e privato della Coppola lascia decisamente in ombra (anche se la musica è tanta, peraltro, le canzoni di Elvis non abbondano).
La Priscilla reale dice che nonostante il divorzio (che chiude qui la storia) ha sempre continuato ad amare Elvis, ma il film si presenta piuttosto come lo studio applicato ad un’icona del pop di una mascolinità tossica da manuale, che si inserisce perfettamente nell’attuale mainstream (basti pensare al successo mondiale di Barbie). Ma da una regista come la Coppola ci saremmo aspettati qualcosa di più di questo racconto a tesi, che le performance non eccezionali dei protagonisti non riescono a far mai davvero decollare. (Laura Cotta Ramosino).
***
Arriva fuori concorso a Venezia The penitent – A rational man, film che Luca Barbareschi (che è regista, interprete e produttore) trae da un recente pièce teatrale di David Mamet, suo amico di lunga data, e che ha portato in passato anche sul palco. Il titolo fa riferimento al suo protagonista: un noto psichiatra ebreo newyorkese, Charles Hirsch, la cui carriera e vita privata vengono sconvolte quando un suo paziente uccide 8 persone in una sparatoria dentro un college e lui si rifiuta di testimoniare per la difesa e di consegnare i files della terapia (la storia è ispirata a un caso reale). Ben presto l’opinione pubblica lo trasforma in capro espiatorio, accusandolo di pregiudizio nei confronti del proprio paziente perché gay e mettendo in discussione anche le sue convinzioni religiose.
Il film mantiene la struttura teatrale e si presenta come una serie di quadri dialogati tra il protagonista, sua moglie, il suo avvocato e un rappresentante della procura, in cui le azioni e le motivazioni del protagonista, il comportamento della stampa e dell’opinione pubblica vengono ripetutamente sviscerate, con un effetto di ripetizione che alla lunga, piuttosto che rivelatorio, diventa pesante e quasi retorico. Ce n’è per tutti: per il politically correct che ha ucciso la libertà di pensiero, per i media che sono sempre alla ricerca di qualcosa che faccia girare l’algoritmo, per l’opinione pubblica sempre alla ricerca di un nuovo mostro da lapidare. Le domande si susseguono: Charles aveva davvero un pregiudizio nei confronti del suo paziente a causa della sua omosessualità? E questo pregiudizio è legato al suo recente ritorno all’ebraismo? Cosa significa davvero la libertà religiosa? Quanto abbiamo il diritto di far pesare su altri le conseguenze delle nostre scelte morali?
Il finale però, con un ultimo colpo di scena, ribalta le carte, ma non nella maniera migliore, e lo spettatore esce un po’ estenuato: forse perché questa volta il passaggio dal palco allo schermo non è riuscito, ma forse anche perché, diversamente che in altre opere più riuscite di Mamet, in tutti questi battibecchi fatica ad attaccarsi davvero ai personaggi. (Laura Cotta Ramosino).
***
Lumbrensueño / Firedream di José Pablo Escamilla (opera seconda, Messico), è uno dei tre film realizzati nell’ambito di Biennale College, il programma attraverso il quale la Biennale di Venezia supporta i progetti di giovani autori. In Lumbrensueño, Lucas (Diego Solìs) è un giovane che ha lasciato gli studi e lavora nel fast food di un’anonima città messicana. Prende seriamente il suo impegno e stringe un legame con l’inquieto collega Oscar (Imix Lamak), che vorrebbe fuggire e cambiare vita. Il suo suicidio, getta Lucas nello sconforto.
José Pablo Escamilla gira un film sulla solitudine, un film quasi claustrofobico non solo per gli ambienti ma anche per la psicologia dei protagonisti; anche il sottofondo musicale, spesso caratterizzato da suoni distorti, descrive bene il disagio. Lumbrensueño non vira però verso il totale pessimismo perché Lucas riesce a reagire e a trovare nel suo interesse per la fotografia – anche grazie a un regalo di Oscar – una via d’uscita alla sua vita insoddisfacente. Pur con un film lento e faticoso, il regista messicano ha il merito comunque di descrivere bene il microcosmo in cui Lucas vive. (Stefano Radice)
***
Sempre in Biennale College è stato presentato anche L’anno dell’uovo di Claudio Casale (opera prima, Italia). Gemma (Yile Vianello) e Adriano (Andrea Palma) sono una giovane coppia in attesa del primo figlio. Decidono di passare la gravidanza e i primi mesi di vita del nascituro nella comunità dell’Uovo, guidata da una guru (Regina Orioli). Si trovano insieme ad altre coppie, e vivono in armonia tra loro e con la natura. Fino a quando, però, Gemma non perde il bambino…
Tanti i temi che Claudio Casale propone in questo suo esordio – maternità, paternità, rapporto con la natura – in un film fin troppo ambizioso. Non si capisce quale sia la sua posizione, ad esempio, rispetto a questa comunità dell’Uovo – simbolo di fertilità – in cui si vive secondo principi ispirati alle filosofie orientali: è una concreta possibilità di vita alternativa al modo di vivere occidentale? Oppure un rifugio illusorio che alla fine non dà risposte, come dice Gemma alla guru? Anche se il film cerca di trasmettere l’idea del valore spirituale e non solo biologico della maternità, finisce nella banalità quando Gemma partorisce un uovo. Va bene giocare con i simboli, ma bisognerebbe farlo in modo più convincente. (Stefano Radice)
Nella foto: Jacob Elordi e Cailee Spaeny in Priscilla di Sofia Coppola
Clicca qui per rimanere aggiornato sulle nuove uscite al cinema
Clicca qui per iscriverti alla newsletter di Sentieri del cinema
Nel primo video: Laura Cotta Ramosino e Beppe Musicco parlano di Enea di Pietro Castellitto, Green Border di Agnieszka Holland e Hitman di Richard Linklater
Nel secondo video: Laura Cotta Ramosino e Letizia Cilea parlano di Priscilla di Sofia Coppola e di Coupe de chance di Woody Allen