8 settembre

Siamo alla vigilia della conclusione della 80ma Mostra del cinema di Venezia (iniziata il 30 agosto, si concluderà con la premiazione sabato 9 settembre 2023): ecco altre nuove recensioni dei nostri inviati. 

Iniziamo per una volta da un film passato alla Mostra fuori concorso. Un documentario, per di più: Enzo Jannacci – Vengo anch’io. Sono passati dieci anni dalla morte di Jannacci, ma il suo ricordo, e non solo a Milano, è ancora vivissimo. Il regista Giorgio Verdelli, specializzato in documentari su autori e compositori, raccoglie in 90 minuti un ritratto che va ben oltre la semplice commemorazione o i vari “mi ricordo” di chi l’ha conosciuto. Jannacci è stata una figura tanto multiforme quanto unica nel panorama musicale italiano. Medico che non ha mai rinunciato alla professione (prima chirurgo, poi medico di famiglia), compositore diplomato, polistrumentista, autore di moltissime canzoni sue e altre scritte in collaborazione, talent scout, figura di riferimento per molti giovani che lo hanno seguito sulla strada del cabaret, originalissimo innovatore della canzone italiana. Ma soprattutto un uomo capace di straordinario affetto, attenzione, valorizzazione del talento altrui senza alcuna gelosia o invidia. I suoi rapporti con le altre figure dello spettacolo sono sempre stati improntati all’amicizia sincera, ed è straordinario sentire i riconoscimenti dei tanti personaggi che l’hanno conosciuto: tutti ritengono inscindibile il suo talento dalle sue doti di simpatia e affezione per chi gli stava di fronte.

Con la guida del figlio Paolo si percorre un itinerario che parte dagli esordi come pianista del gruppo di Adriano Celentano al sodalizio con Giorgio Gaber e al loro rapporto fraterno, arrivando alla scoperta del duo comico Cochi e Renato, e così via. Inutile dire che per ogni incontro, ogni situazione, ogni canzone, c’è sempre un aneddoto comico, una battuta, un momento assurdo che rivela il lato umoristico di Jannacci, la capacità di ridere, di giocare, di non prendersi troppo sul serio. Rievocare la nascita delle sue canzoni, dalle prime in milanese ai grandi successi degli anni 70-80 come “Quelli che…” o “Ci vuole orecchio”, ma anche le collaborazioni inaspettate con De André o Paolo Conte, svelano come l’influenza che ha avuto su tanti artisti (anche giovani, che l’hanno sentito solo in registrazione) sia viva ancora oggi. Si ride e ci si commuove, di fronte a questa persona affascinante; e come in molti ci hanno tenuto a ripetere «quando salgo sul palco, lui è sempre di fianco a me». (Beppe Musicco)

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Dopo aver vinto il titolo di miglior film in Orizzonti nel 2016 con Home, la regista belga Fien Troch torna in laguna, questa volta nel concorso principale, con Holly, una storia di formazione dalle tinte soprannaturali. Holly è un’adolescente introversa e riflessiva dotata di strani poteri premonitori e benefici; un giorno decide di chiamare a scuola per avvisare della sua assenza, poche ore dopo nell’edificio si verificherà un incendio che causerà la morte di alcuni ragazzi…

Misticismo e misteri soprannaturali dettano il ritmo del film della Troch, che si costruisce intorno al personaggio di Holly e va alla scoperta di un giovane carattere in formazione tra dubbi, insicurezze e una comunità segnata da un traumatico incidente. Poche idee confusamente messe insieme sullo schermo trasformano Holly in un prodotto difficilmente capace di lasciare il segno nello spettatore e nella critica. (Letizia Cilea)

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Sullo sfondo della trasformazione della Polonia nel passaggio dal comunismo al capitalismo, Kobieta Z attraversa quarantacinque anni della vita di Aniela Wesoły, raccontando il suo percorso alla ricerca della libertà come donna trans. La protagonista affronta difficoltà in famiglia e situazioni complicate nell’ambiente dove vive.

Diretto da Malgorzata Szumowska e Michal Englert, e presentato in concorso, Kobieta z… ci offre un affresco della dura e commovente storia della protagonista Aniela, dipingendo in parallelo la storia di una Polonia anch’essa in transizione verso una democrazia che ancora oggi non riconosce giuridicamente il diritto delle persone alla riassegnazione di genere. Una fotografia incredibilmente curata e caratterizzata da colori caldi si accompagna alla bella interpretazione di Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, attrice transgender capace di indossare i panni della protagonista con grande delicatezza; poteva essere un racconto militante, invece Kobieta Z… convince e commuove proprio per la sua lontananza da qualsiasi affermazione ideologica e la sua forte volontà di raccontare una storia di vita e di far sì che siano quel racconto, quelle immagini e quell’umanità a parlare più di ogni altra presa di posizione o giudizio sulle parti coinvolte. (Letizia Cilea)

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Serie tv presentata nella sezione fuori concorso con i primi due episodi, I know your soul si aggira attorno al genere thriller per raccontare la storia di una pubblico ministero di Sarajevo che, nell’indagare su un suicidio commesso da un quattordicenne in circostanze misteriose, scopre la vita nascosta di suo figlio Dino, diciassettenne che frequenta la stessa scuola della vittima…

La regista bosniaca Jasmila Zbanič, già nota per il bellissimo Quo vadis, Aida? presentato in concorso nel 2020,  è showrunner, creatrice e sceneggiatrice di questa promettentissima miniserie, che dietro le tinte thriller-giudiziarie nasconde una denuncia sociale sulla criminalità che affligge la Bosnia e sull’incapacità delle vecchie generazioni di leggere necessità, drammi e bisogni dei più giovani nelle complessità del mondo di oggi. La serie è composta da sei episodi ed è interpretata dalla sempre eccelsa Jasna Duričić, già protagonista di Quo Vadis, Aida? e qui nei panni di una madre divisa tra l’amore per il figlio e il suo dovere da pubblico ministero. Per confermare definitivamente il giudizio attendiamo l’uscita della serie su piattaforma, certo è che i primi due episodi ci hanno già catturati ben oltre le aspettative… (Letizia Cilea)

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Kanata no uta (Following the Sound) è stato presentato nella sezione autonoma Giornate degli autori. Il film ha per protagonista Haru, una giovane commessa in una libreria che si mette sulle tracce di una donna e di un uomo, tristi e malinconici. Entrando nelle loro vite, le cambia ma a unire i tre è un evento drammatico del passato…

Diretto dal regista giapponese Kyoshi Sugita, Kanata no uta affronta – con la consueta delicatezza, raffinatezza ma anche lentezza dei film nipponici – il problema della perdita, del lutto e del suo superamento. La figura centrale è quella di Haru (An Ogawa), un personaggio misterioso, quasi angelico che, con delicatezza, cambia le vite di Yukiko (Yuko Nakamura), una donna che vive da sola, Tsuyochi (Hidekazu Mashima), un padre che cresce la figlia adolescente, e anche la sua. Lentamente il film ci svela che alla base di tutto c’è la tragica morte anni prima della madre di Haru che in qualche modo ha coinvolto anche gli altri due personaggi. Incontrarli, per la giovane, vuol dire superare il suo stesso dolore e permettere agli altri due di tornare a vivere. Il film, che si svolge quasi tutto in interni, descrive molto bene gli ambienti e le abitudini dei giapponesi. Un ruolo importante lo hanno il rito del mangiare come anche quello del bere, sempre con misura e moderazione, e una parte centrale la svolge anche il cinema; Haru, ad esempio, segue un corso di regia e nel film non mancano momenti in cui ci si trova sul set di film amatoriali, come quello girato dalla figlia di Tsuyochi, che poi vengono visti collettivamente. Anche la settima arte, quindi, può svolgere un ruolo terapeutico. Il film di Kyoshi Sugita – che ha il merito della brevità, durando solo 84’ – non è ai livelli di Departures o Drive my Car che affrontano in modo sublime il tema della perdita, ma si inserisce in un filone che in Occidente ha trovato più di un estimatore. (Stefano Radice)

Sempre alle Giornate degli autori ma come evento speciale, è stato presentato 21 Days Until the End of The World della regista macedone Teona Strugar Mitevska (Dio è donna e si chiama Petrunya). Si tratta di un film sperimentale in cui unica protagonista davanti alla macchina da presa, o meglio allo smartphone, è la regista stessa che si immagina di avere ancora 21 giorni prima di morire. Davanti allo schermo e allo spettatore la regista mette se stessa, il suo corpo, i suoi pensieri; parla di sesso, vita, paure, ricordi e affetti. L’impostazione può ricordare alla lontana Arirang del compianto Kim Ki-duk ma 21 Days Until the End of The World è meno claustrofobico del film coreano. Si tratta di un progetto ideato e pensato durante i giorni duri del Covid, fatti di timori e di isolamento e Strugar Mitevska prova a rendere quelle atmosfere. Le situazioni e i discorsi della protagonista possono scuotere e angosciare chi guarda il film ma potrebbero anche avere l’effetto contrario alla lunga di annoiarlo. (sr)

Nella foto: Enzo Jannacci nel documentario diretto da Giorgio Verdelli e presentato alla Mostra fuori concorso.

Nel video: Letizia Cilea e Beppe Musicco parlano di “Daaaaaalì!”, “Holly” e “Lubo”