Apre la Berlinale numero 73 e si vede che ormai il clima che si respira è post pandemia (in eredità ci sono solo le prenotazioni online e i distributori per igienizzare le mani sparsi ovunque), ma pervaso dalla consapevolezza che durante il festival cadrà anche l’anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina. È di ieri la notizia che all’inaugurazione parteciperà in collegamento, senza il seguito di polemiche all’italiana di Sanremo, anche il presidente ucraino Zelensky, per altro già protagonista del documentario di Sean Penn Superpower, che è inserito tra gli eventi speciali del ricco programma insieme a una serie di altre iniziative a sostegno del suo paese e della sua industria cinematografica. Di tale programma saremo attenti analizzatori, con tre “firme” del nostro sito Internet accreditate come inviate alla rassegna.
Ad aprire il Berlino Film Festival è un film spudoratamente sentimentale, She came to me di Rebecca Miller (la regista e sceneggiatrice che qualche anno fa aveva regalato un bel ruolo a Greta Gershwig con Maggie’s plan) e che qui fa incontrare Steven, un compositore d’opera in crisi di ispirazione (Peter Dinklage), con Kristina, esuberante capitano di rimorchiatore (Marisa Tomei), così appassionata di commedie sentimentali da essere diagnosticata di una dipendenza da sesso e romance. Un incontro esplosivo che farà ritrovare a lui l’ispirazione e il successo e che si intreccia con le vicende della moglie di Steven, Patricia (Anne Hathaway), psicoterapeuta con manie per la pulizia e un profondo rapporto con Dio che non svela a nessuno, di Julian (Evan Ellison), il figlio di lei, che è fidanzato con Tereza (Harlow Jane), la figlia di Magdalena (Joanna Kulig), la donna delle pulizie polacca di Patricia.
Se nell’incontro tra Steven e Katrina il sentimento arriva a far rinascere un’ispirazione che sembrava bloccata, nella vicenda dei due adolescenti innamorati la Miller voleva mettere in scena un amore puro e assoluto come solo a quell’età può essere, e in effetti in modo assai rocambolesco la vicenda vira nella direzione di un dramma alla Giulietta e Romeo, dove a fare il ruolo del cattivo è il padre adottivo di Tereza, uno stenografo appassionato delle ricostruzioni della guerra civile. Ma è una storia d’amore, per quanto particolare, quella che porterà Patricia dal suo sofisticato appartamento di Manhattan alla vocazione religiosa: un percorso che, per quanto a tratti surreale, la regista prende molto sul serio e non scambia per una sofisticata forma di malattia mentale.
Tutto questo assortimento di personaggi dà l’idea del tono volutamente e spudoratamente sopra le righe del film della Miller, in cui la musica (operistica, ma non solo; Bruce Springsteen si è prestato a scrivere un pezzo che sentiamo sui titoli di coda) è il cuore pulsante della storia e innerva tutta l’azione. Rebecca Miller covava da tempo il desiderio di raccontare una storia in cui «qualcuno entra nella vita di qualcun altro e finisce per cambiarla» e tutti e tre gli interpreti adulti di questa storia – Dinklage, Tomei e Hathaway – confessano che anche per loro l’offerta di partecipare il film ha avuto un effetto liberatorio. A cinquant’anni, racconta l’interprete di Game of thrones, inizia un’età particolare per un attore (e, diremmo noi, ancora di più per un’attrice) in cui bisogna andare a cercare dei ruoli che diano un’ispirazione. «Gli attori non sono creatori come gli sceneggiatori e i compositori, ma possono anche loro trovarsi bloccati e una storia così è un’occasione imperdibile».
She came to me è un’opera insieme «autobiografica e non autobiografica, come in fondo tutte le storie» ha detto la regista alla conferenza stampa, dove, di fronte all’accusa garbata di aver dato un a caratterizzazione troppo stereotipata all’immigrata polacca Magdalena, ha candidamente risposto che il personaggio è in gran parte basato su una persona vera da lei incontrata. Un film forse non sempre equilibrato ma che porta avanti il suo messaggio di fiducia nella potenza trasformativa dell’amore senza un momento del cinismo che anima tanta cinematografia contemporanea e un esempio di quel cinema indipendente ormai così difficile da produrre senza il sostegno attivo di qualche talento (qui Anne Hathaway che, oltre che interprete, è anche produttrice) ma che in un festival a vocazione dichiaratamente popolare come è quello di Berlino può trovare un trampolino di lancio per raggiungere il suo pubblico.
Laura Cotta Ramosino
Nella foto: Peter Dinklage in She came to me