La seconda giornata della Berlinale ha in programma due documentari dal peso e dalla riuscita molto diversi.

  • Boom Boom The world vs Boris Becker firmato da Alex Gibney (The Armstrong Lie, Taxi to the Dark Side, Steve Jobs. The Man in the machine) prende spunto dall’incarcerazione per bancarotta dell’ex campione di tennis tedesco, avvenuta l’anno scorso in Gran Bretagna, per ripercorrerne la carriera, dalla vittoria fulminante a soli 17 anni a Wimbledon agli alti e bassi sportivi e caratteriali, ai problemi con la giustizia fiscale in Germania. Forse il tennista tedesco non è un personaggio così intrigante o il regista stavolta non è riuscito a trovare una chiave di lettura convincente come in lattre sue prove precedenti, ma il risultato è un documentario riuscito a metà, dove paradossalmente risalta più l’autoironia e l’autentica verve da spettacolo di un John McEnroe piuttosto che la personalità del protagonista.
  • Risulta invece dolorosamente “sul pezzo” il documentario di Sean Penn Superpower, dedicato al presidente ucraino Zelensky. L’attore americano era andato in Ucraina un anno fa al momento dell’invasione russa per ottenere un’intervista dal presidente, che lo interessava per la sua straordinaria (e paradossalmente molto americana) parabola da attore comico e uomo di spettacolo a capo di stato e si è ritrovato nel bel mezzo della Storia senza averlo preventivato. È per lo meno ammirevole l’onestà con cui Penn inserisce nel racconto anche le sezioni girate alla vigilia del viaggio in cui lui e i suoi collaboratori mostrano la loro ignoranza sulla geopolitica locale e la sicurezza (a posteriori mal riposta) sul fatto che la guerra sia un’eventualità remotissima (ma chi di noi non ricorda di aver vissuto quelle settimane più o meno nello stesso modo?). L’incontro a sorpresa con Zelensky il giorno stesso dell’invasione è vissuto dall’attore regista americano come un momento in qualche modo voluto dal destino, che ha cambiato la sua prospettiva e gli ha dato una missione. C’è forse dell’ingenuità nella sua posizione ma anche un profondo idealismo, che lo porta al ritorno in America a confrontarsi perfino con i suoi avversari politici di Fox New pur di creare quel consenso bipartisan al sostegno agli Ucraini che sente come la conditio sine qua non perché gli Usa tengano fede in modo per lo meno dignitoso alla propria vocazione si difensori della libertà.

Il documentario, che pure dura due ore abbondanti, non annoia mai, si prende il suo tempo per ripercorrere la storia recente dell’Ucraina (a favore di un pubblico che Penn immagina ingenuo  e ignorante quanto lui, ma che accostando a se stesso evita di trattare dall’alto in basso) e anche il passato di Zelensky (con comparsate televisive che farebbero probabilmente arrossire dei politici nostrani ma che il diretto interessato non rinnega) per poi passare alla cronaca diretta del dramma ucraino, della propria fuga rocambolesca e dei ritorni sul posto. Ci sarà chi lo accuserà di eccesso di ingenuità o al contrario di emotività manipolatoria, ma l’impressione di chi lo ha visto qui è piuttosto di un’opera convinta e convincente, di qualcuno che a sua volta ha sentito l’incontro con il destino e ha deciso di assecondarlo in tutti i modi, con il cuore in mano e il dito puntato contro chi non si impegni nella difesa della libertà.

  • Non troppo a caso, lo stesso giorno la sezione Panorama del concorso accoglie un altro film che parla di guerra, una guerra lontana che però riecheggia tristemente quelle di oggi. Un film d’animazione, ma certo non per bambini. La Sirène della regista iraniana (nata a Teheran ma emigrata a Parigi) Sepideh Farsi ha per protagonista il quattordicenne Omid, che si trova nella città di Abadan, attaccata e assediata dagli iracheni all’inizio della guerra che insanguinerà il golfo Persico per i successivi otto anni. Realizzato con un’animazione minimalista ma molto espressiva, il film segue Omid che, troppo piccolo per arruolarsi con il fratello Abdel, decide però di rimanere in città con il nonno mentre la madre fugge con i fratelli più piccoli. Nella città assediata e colpita costantemente dai bombardamenti nemici Omid divide il suo tempo tra l’addestramento del suo gallo da combattimento e la consegna di cibo a vari abitanti della zona, attività che lo porterà a conoscere una famosa cantante la cui carriera è stata chiusa dall’arrivo della rivoluzione islamica, l’ingegnere che ha progettato la grande raffineria cittadina, i due sacerdoti della locale chiesa armena, un ex pescatore di squali, un cuoco e un capitano di nave che gli ricorda suo padre morto. Con questo strano equipaggio Omid cercherà una disperata fuga al momento della caduta della città, in un climax di intensità emotiva che apre lo sguardo alla fede e al miracolo.

Se questo sensibile coming of age riporta alla memoria un conflitto tremendo  e inutile che lasciò sul capo più di un milione e mezzo di morti e che ora sembra uscito dalla memoria di tanti, le immagini dei morti ammassati e la paura dei bombardamenti parlano anche alle paure e ai drammi di oggi e le immagini disegnate del film della Farsi si mescolano misteriosamente con quelle reali dei tg del documentario di Sean Penn, riportando il nostro sguardo innanzitutto sull’uomo e la sua decisiva capacità di scelta per il bene o per il male.

Laura Cotta Ramosino

  • E tra i titoli in concorso altri due film dalla particolare tematica. Il primo è The survival of kindness di Rolf de Heer (Australia). Un’aborigena australiana viene imprigionata in una gabbia da uomini che indossano una maschera antigas e abbandonata nel deserto. Riesce a fuggire e inizia un viaggio a piedi che le farà incontrare altre figure, in uno scenario di pestilenza e violenza.

Un film di genere fantasy/apocalittico girato praticamente senza dialoghi, dove tutto è affidato allo sguardo di questa donna (Mwajemi Hussein), la cui fuga sembra guidata da una misteriosa missione. A dispetto del titolo, di gentilezza non se ne vede molta, neanche da parte della protagonista, più desiderosa di schivare che di approcciare altri esseri umani (tutti comunque colpiti da pazzia, malattia o persecutori). L’unica affinità sembra instaurarsi con due ragazzi, fratello e sorella, ma anche questa è destinata a durare poco. Forse il film nasce dall’esperienza del Covid, ma se c’è un messaggio o un significato, bisogna ammettere che allo spettatore arriva soltanto un susseguirsi di paesaggi più o meno attraenti e personaggi sfuggenti o mascherati sui quali interrogarsi.

  • Una regista, Emily Atef, per il film tedesco Un giorno ci diremo tutto reciprocamente (Irgendwann Werden Wir Uns Alles Erzahlen). Nell’estate del 1990 i ventenni Maria e Johannes vivono insieme nella soffitta della casa dei genitori di lui, nella DDR appena riunificata con la Germania Ovest. Un  futuro già in vista, con Johannes che vuole iscriversi all’Accademia per studiare fotografia. Ma Maria incontra Henner, un uomo solitario che ha il doppio degli anni di lei e i cui modi ruvidi affascinano Maria, che se ne innamora perdutamente. L’indecisione della ragazza, che continua a rimandare il momento in cui dovrà lasciare Johannes, sfocia in una serie di incontri clandestini per soddisfare i desideri fisici di entrambi, fino a quando Johannes deciderà di tagliare la relazione. Un film che vorrebbe ispirarsi al romanticismo tedesco (vedi I dolori del giovane Werther), ma che purtroppo non sfrutta abbastanza la pregnanza e le questioni del periodo storico della riunificazione tedesca, preferendo focalizzarsi su “pene d’amore” sviluppate in modo assai convenzionale.

Beppe Musicco