La particolarità di Searching è che la trama si svolge interamente su uno schermo. O meglio, sugli schermi di diversi dispositivi tecnologici: un paio di computer, un cellulare, un televisore, alcune telecamere… Un linguaggio coraggioso per contestualizzare una vicenda crime nell’era contemporanea, dove qualunque informazione sembra a portata di clic e anche alle persone comuni viene naturale improvvisarsi “detective”.
Quella dei dispositivi è una mossa ardita (per quanto non unica nel suo genere) e non priva di forzature, che alla lunga può risultare un po’ soffocante. In generale però, funziona: a sostenerla quali veri punti di forza del film ci sono infatti una regia brillante – dietro la macchina da presa l’esordiente Aneesh Chaganty, americano di origina indiana – e una struttura drammaturgica solida, che rendono scorrevole la narrazione e aiutano a empatizzare coi protagonisti, nonostante il doppio filtro dello schermo dentro lo schermo. Questo si nota già dalle primissime scene, che ci raccontano in pochi minuti la nascita e l’evoluzione di una famiglia stroncata da un lutto prematuro: una sequenza asciutta ma ricca di sentimento, che ricorda vagamente l’ormai iconica sequenza d’apertura di Up. Impossibile, dopo queste prime scene, non fare il tifo per la famiglia Kim: è così che il nostro cuore è con il padre David quando, ancora segnato dalla morte della moglie, realizza con dolore che Margot, la sua unica figlia, è scomparsa nel nulla. Cercando affannosamente indizi tra i messaggi privati e i profili social di Margot, David si trova a fare i conti con un’ulteriore amara verità, ovvero che non conosce per nulla sua figlia.
Contribuiscono all’efficacia del film le buone prove di John Cho e Debra Messing, certamente non i volti più scontati per queste parti. Fa piacere vedere un nome asiatico come protagonista (non stereotipato) di un film statunitense, e la Messing dopo anni di Will & Grace forse riuscirà a ritagliarsi uno spazio al di fuori del genere comico.
Estraneo a una retorica contro i rischi del digitale che apparirebbe ormai anacronistica, il film col suo linguaggio particolare sembra piuttosto volersi calare il più possibile in uno scenario attuale. Non stupisce il fatto che il regista provenga da Google, presenza preponderante nel film (come nella realtà) oltre che significativa per l’avanzamento delle indagini, tanto da far sembrare a tratti la pellicola una campagna di branded content. Ciò che resta allo spettatore comunque, al di là del linguaggio, è una buona storia. In fondo, non è questo ciò che conta di più?
Maria Triberti