Nel 1970, in Cile vince le elezioni presidenziali Salvador Allende, che guida un governo sostenuto da una coalizione di sinistra. La prima volta di un governo di ispirazione marxista che va al potere con il voto e non con una rivoluzione e con mezzi totalitari. Nel Paese c’è grande allegria ed entusiasmo. Ma pezzi di società – conservatori, militari, borghesia – con il sostegno americano (gli Stati Uniti detestavano Allende, per le scelte di politica economica tra cui la nazionalizzazione delle miniere di rame) lavorano alla caduta del governo, destabilizzano la società con minacce e tensioni (cui non furono estranei anche gli estremisti di sinistra del MIR), boicottano l’economia cilena. Quando il Paese è allo stremo, nel 1973, l’esercito tradisce Allende e ha facile gioco nel prendersi il potere, arrivando a fare quello che è inconcepibile in un paese democratico: bombardare con gli aerei il palazzo presidenziale. Dopo un coraggioso ultimo discorso alla radio (che invitava a non reagire alle violenze e quindi a non scatenare una guerra civile), Allende fu trovato morto da chi andava ad arrestarlo: omicidio o suicidio? Da lì partì una dittatura militare terribile e sanguinaria, guidata dal generale Pinochet che per 15 anni insanguinò il Paese, torturò e uccise migliaia di oppositori spesso inermi, spense ogni voce libera.
In tutta questa tragedia, Nanni Moretti – che nel ’73 aveva vent’anni, e che torna a un documentario importante a quasi trent’anni da La cosa sui tormenti dei militanti comunisti per il cambio di nome del PCI – rievoca una pagina poco nota: il ruolo dell’Italia. Prima dell’ambasciata a Santiago, grazie ad alcuni giovani e coraggiosi funzionari. Poi del nostro Paese, che si aprì a tutti quelli che cercavano un posto sicuro da arresti immotivati della polizia e torture: si rifugiarono centinaia di persone, alla fine quasi 600; a quegli esuli cileni – che avevano ottenuto asilo politico e di cui la stessa ambasciata organizzò, non senza difficoltà, l’uscita dal Cile – generosamente l’Italia diede un lavoro e il calore dell’accoglienza. E la risposta politica fu compatta, il governo Pinochet non fu mai riconosciuto ufficialmente, con un’ostilità che andava di pari passo con l’aiuto e il sostegno ai dissidenti da tutti i partiti principali: comunisti e democristiani, socialisti e repubblicani. Una storia di cui essere orgogliosi, che il regista ha volto raccontare. Mettendo in luce con grande onestà intellettuale anche il ruolo della Chiesa cattolica: un intervistato racconta, commuovendosi (e dicendosi ateo), l’opera di protezione dei rifugiati e di ricerca della verità sugli scomparsi del cardinale di Santiago Raul Silva Henriquez, che il regime temeva, e quanto si prestarono singoli religiosi: gustoso l’episodio di un salvataggio gestito da due “monache”.
Con materiali d’epoca e con numerose interviste a dissidenti che si sono salvati dalle stragi e che rievocano quegli anni di terrore (tra questi i registi Patricio Guzman e Miguel Littin), ai funzionari dell’ambasciata Piero De Masi e Roberto Toscano (l’ambasciatore era in Italia per gravi motivi familiari) e a esuli ormai trapiantati in Italia o ritornati in Cile con la democrazia, Moretti realizza un documento prezioso, che ci illumina su un aspetto poco noto ma significativo di quell’infame pagina storica. Lo fa con sobrietà, senza farsi vedere troppo. E lasciando semmai campo aperto alla commozione dignitosa – che commuove gli spettatori – degli intervistati, che riaprono pagine drammatiche della loro vita. E dando la parola anche a due militari, che possono esporre la loro posizione. Uno, all’epoca dei fatti giovane e senza responsabilità dirette (e oggi ancora in servizio), giustifica il golpe contro il pericolo comunista e sostiene che le violenze erano casi isolati; l’altro, in carcere per i suoi crimini, se la prende alla fine con l’atteggiamento “non corretto” dell’intervistatore. «Io non sono imparziale» gli replica l’autore, a esplicitare il taglio di Santiago, Italia. Che non è una fredda rievocazione di fatti, ma una pagina di Storia recente che ha la pretesa di illuminare il presente. Sui rischi che una democrazia corre, ma anche sulla necessità di riscoprire quel sentimento dell’altro che noi italiani abbiamo avuto da sempre (una donna dice «l’Italia è stata una madre generosa per me»), e che le vicende contemporanee sembrano aver fatto smarrire a molti. Con gli stranieri che arrivano da ogni parte (rifugiati al pari di quei cileni dissidenti e arrivati sprovvisti di tutto), e tra di noi.
Antonio Autieri