La trama, all’osso, sembra quella di Mystic River, uno dei capolavori di Clint Eastwood. E invece è il quarto film di Daniele Gaglianone, autore italiano emergente ma anche sopravvalutato, che non convince mai del tutto con le sue pellicole. In questo caso, non ci si lasci ingannare dai quattro nomi “forti” del cast: Filippo Timi, Valeria Solarino, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea. Solo Timi ha un ruolo importante, quello del diabolico medico pedofilo cui i genitori di un quartiere – immigrati meridionali nella periferia di una città del Nord (pare Torino) negli anni 70 – affidano le cure dei bambini, e mal gliene incolse; gli altri attori di nome interpretano tre adulti (di cui un fratello e una sorella) che a distanza di anni portano ancora addosso le ferite di quel cupo passato della propria infanzia, che nell’andirivieni con il presente man mano si svela fino al colpo di scena finale (piuttosto prevedibile). I pregi del film sono nelle location del passato – la provincia povera e senza prospettive, il luogo dei giochi in un tunnel scavato sotto rottami metallici chiamato dai bambini il “castello” – e nelle interpretazioni spontanee dei piccoli attori, che rendono bene tremori, candori e crudeltà dell’infanzia e che forse meriterebbero ancora più spazio nell’economia narrativa ed emotiva del film; come era in quel bellissimo film sui traumi di un’infanzia che dura troppo poco che era Io non ho paura di Gabriele Salvatores. Ma il problema, e qui passiamo ai gravi difetti di Ruggine, è che i momenti che dovrebbero essere “toccanti” sono affidati al presente, a tre attori bravi ma ridotti a camei senza spessore in episodi grigi e sfocati: in particolare, Mastandrea non è per nulla credibile già dalla parlata meridionale, lui così romano (al limite funziona bene quando prende la cadenza toscana, come in La prima cosa bella di Virzì); ma anche il padre disegnato da Accorsi che gioca con il figlio e ha paura di spaventarlo è solo abbozzato, e la pur brava e sensibile Solarino è ingabbiata in sequenze in un consiglio di classe al limite del ridicolo (“con quello che ci pagano dobbiamo anche fare gli psicologi” la battuta significativa di una scrittura povera fino alla sciatteria). Ma neanche Filippo Timi, in genere molto efficace, risulta convincente nel ruolo malefico del pedofilo: se inizialmente sembra l’amplificarsi del piccolo ma inquietante ruolo-comparsata di La solitudine dei numeri primi, alla lunga risulta un po’ troppo caricato e quasi macchiettistico. Mentre la storia, troppo sbilanciata su momenti quasi horror e superficialità descrittive, non riesce mai a smuovere l’interesse dello spettatore: come poteva succedere se si fosse privilegiata la semplicità della narrazione alla ricerca dello stile. E non appassionare a un tema doloroso come il male sui bambini è sorprendentemente grave.,Antonio Autieri,