Notte di Natale: un uomo si aggira in auto per le strade di Roubaix. È il commissario Daoud, uomo totalmente dedito al suo lavoro che vive come una missione. Roubaix è la sua città di origine: ci è cresciuto, l’ha vista degradarsi tra povertà e diffusa criminalità, ne compiange i marginali che si arrabattano in qualche modo, da chi dà fuoco alla sua auto per ingannare l’assicurazione ai nuclei familiari dove l’aggressività esplode per un nonnulla. Un’esplosione in un quartiere particolarmente squallido e poi il caso di un brutale omicidio di un’anziana signora lo portano in contatto con Claude e Marie, due giovani donne alcolizzate che vivono insieme (una è anche madre di un bambino di 6 anni) e che si portano dietro ferite del passato. Per Daoud e per gli uomini del suo commissariato non è tanto difficile arrivare alla verità, quanto guardare da vicino – ancora una volta – un male indicibile.

È un poliziesco molto sui generis Roubaix, Une Lumière (in concorso a Cannes 2019): lo dirige Arnaud Desplechin, sessantenne autore francese – nato proprio nella cittadina del nord della Francia, confinante con il Belgio e che gli sportivi conoscono soprattutto come località di arrivo di una celebre classica del ciclismo – spesso fin troppo cerebrale nei suoi film. Qui convince subito, dalle prime scene notturne che immergono il film – grazie anche alle musiche e agli ambienti – in un’atmosfera noir. Si deve anzi parlare di polar, genere cardine del cinema francese fin dagli anni 50, un misto di noir e poliziesco. L’intreccio “giallo” (per usare un termine invece tipicamente ed esclusivamente italiano) non è gran cosa perché capiamo in fretta come sono andate le cose, e perché all’autore interessa relativamente: e la versione doppiata appesantisce ulteriormente una scansione degli eventi non proprio elettrizzante, con alcuni interpreti minori che risultano un po’ stereotipati; e anche l’accompagnamento musicale, soprattutto nel finale, non convince sempre.

Ma numerosi sono invece i meriti del film, gran parte dei quali risiedono nella rappresentazione dei personaggi e nella bravura dei quattro interpreti principali. Il protagonista Roschdy Zem (miglior attore ai premi Cesars francesi) disegna la figura di uno “sbirro” di grande ironia ma anche umanità, con la passione per i cavalli e con la pazienza di chi ne ha viste tante e sa che i principi della legge si devono confrontare con la natura fragile delle persone e le contraddizioni della vita: senza fare sconti ai colpevoli, ma senza neppure rinunciare a uno sguardo di compassione per il male che fanno agli altri e in fondo a sé stessi (con un’attenzione al ruolo della società sulla “mala educazione” delle persone marginali). Le due giovani donne, interpretate dalle ottime Léa Seydoux (la sua bravura l’ha portata anche a Hollywood, con le saghe di 007 e di Mission: Impossible) e Sara Forestier, che si rivelò giovanissima con La schivata e che qui regala forse la sua miglior interpretazione, sono personaggi inquietanti e umanissimi al tempo stesso nella loro banalità. E un bel tocco lo regala anche la figura di Louis, giovane recluta del commissariato che deve imparare tutto del mestiere e che guarda con ammirazione quel capo carismatico, facendo i conti con il Male che deve affrontare e con le domande che la sua fede gli suscita.

Antonio Autieri