Marco Tullio Giordana è un regista che ama spesso rievocare pagine della storia italiana. In Maledetti vi amerò era l’inizio del terrorismo, in Pasolini, un delitto italiano il processo sull’omicidio Pasolini, in I cento passi (che lo segnalò come un regista ormai maturo), il delitto di Peppino Impastato da parte della mafia, in La meglio gioventù la storia di alcuni giovani e delle loro speranze nate negli anni 60 e le successive delusioni; infine, in Sanguepazzo, modesto melò con Zingaretti e Bellucci, la tragedia di due divi del cinema anni 40 compromessi col fascismo e uccisi dai partigiani. Ora il suo film forse più complesso e ambizioso, o quanto meno rischioso: in Romanzo di una strage si riapre la ferita di Piazza Fontana, ovvero l’attentato che il 12 dicembre 1969 a Milano fece morire, nella Banca dell’Agricoltura adiacente all’Arcivescovado e a due passi dal Duomo, 17 persone. Ma le vittime innocenti, si dice da tempo, furono 19: pochi giorni dopo, tra i tanti fermati tra i circoli anarchici, c’era il ferroviere Giuseppe Pinelli. Che dopo tre giorni di duro interrogatorio – si voleva sapere da lui se il colpevole fosse il sospettato Pietro Valpreda, che fu poi arrestato e, dopo vari processi, assolto solo dieci anni dopo – volò da una finestra della Questura: suicidio, malore o omicidio dei poliziotti? Se ne parla da 40 anni, anche se tutte le sentenze hanno escluso la terza, e più terribile ipotesi (puntando sul malore) e soprattutto hanno scagionato il commissario Luigi Calabresi, in quel momento non presente nella stanza in cui avvenne il terribile fatto. Nonostante ciò, da allora partì il linciaggio della sinistra contro Calabresi, in particolare di quella extraparlamentare a cominciare da Lotta Continua (ma seguita da ambienti “perbene”, soprattutto tra intellettuali, giornalisti e artisti); fu il commissario, ucciso nel maggio 1972, la 19ma vittima.
Tutto questo lungo preambolo, a una recensione molto più lunga del normale per un film così complesso, per aprire il primo fronte critico: se Giordana finalmente certifica, da sinistra, l’innocenza di Calabresi (come gli ha riconosciuto il figlio Mario, direttore de La Stampa e autore del bel libro Spingendo la notte più in là), beccandosi per per questo le accuse dei nostalgici della teoria del commissario “torturatore”, dall’altra lascia molto sullo sfondo quel linciaggio, tanto da far pensare a chi non sa che l’omicidio fosse dovuto ai sospetti di Calabresi – che pure c’erano – su un possibile connubio tra neofascisti (Freda e Ventura, la cui colpevolezza emerse anni dopo le assoluzioni, non poterono più essere puniti), servizi segreti deviati e apparati dello Stato dentro il Ministero dell’Interno; con tanto di scoperta dell’esistenza di Gladio (che assurdità…). Quando invece le sentenze definitive, dopo le confessioni nel 1988 del pentito Leonardo Marino, portarono ad attribuire l’omicidio allo stesso Marino e al trio Sofri-Bompressi-Pietrostefani (di cui solo Sofri ha scontato interamente i 22 anni di condanna). Conseguenza di quella devastante campagna d’odio di cui fu fatto oggetto per la morte di Pinelli. Per chi non sa o non ricorda, il quotidiano di Sofri e C. scrisse: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte…». E ancora:«Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell’assalto dei proletari contro lo Stato assassino».
Giordana invece, e questo è da apprezzare, non solo è netto sull’innocenza di Calabresi ma lo rappresenta come Pinelli, entrambi vittime innocenti – che pure nel frangente decisivo si trovano a scontrarsi, nonostante si stimassero a vicenda – e anche pedine inconsapevoli di logiche malate all’interno dei rispettivi “gruppi” (elementi deviati nella Polizia e nello Stato, estremisti violenti oltre agli infiltrati neofascisti tra gli stessi anarchici). E, in un’analisi schiettamente cinematografica, sono due personaggi resi al meglio da Valerio Mastandrea (la vera sorpresa del film, in un ruolo sobrio e mai sopra le righe, anche troppo secondo la vedova Calabresi) e da Pierfrancesco Favino, ancora una volta bravissimo. Ma sono tanti gli interpreti eccellenti: dalle rispettive mogli (bravissima Michela Cescon/Licia Pinelli, misurata Laura Chiatti/Gemma Calabresi), a Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, e poi gli ambigui Giorgio Colangeli e Giorgio Tirabassi, l’onesto magistrato Luigi Lo Cascio, Thomas Trabacchi che fa il giornalista Marco Nozza (tra i più attivi nell’indagare per anni), e altri attori meno noti. Nota deludente, non tanto per l’attore quanto per la sorprendente banalità del tratteggio, è il grande Omero Antonutti che fa un Saragat banale e unidimensionale, e storicamente poco attendibile (ma è la colpa è di Giordana e dei suoi cosceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia)
Non è l’unica pecca del film, anzi: se la rievocazione visiva e narrativa è convincente e riesce a comunicare l’angoscia di un Paese sull’orlo di una guerra civile, che sprofondò pochi anni dopo negli anni di piombo con gruppi terroristici rossi e neri (ma sembra che nel ’68-’69 gli eversori fossero a destra, e invece c’è chi sognava la rivoluzione rossa con metodi violenti), Romanzo di una strage ha molti momenti didascalici, utili per chi non conosce fatti e personaggi ma stucchevoli per un pubblico avvertito;: quando non ridicoli e sommari, come certi riassuntini di momenti storici. In sintesi: affresco in parte riuscito, ma con tanti dettagli poco curati e superficiali.
Ma a lasciare perplessi sono l’accumulo di tesi, giudizi e amnesie irritanti. Se la teoria del doppio attentato (uno di destra, mortale, l’altro anarchico e solo dimostrativo) ha fatto discutere moltissimo, e se in una storia così confusa certi dettagli sono impossibili da decifrare a chi non ha seguito minuziosamente un iter giudiziario così opaco, basta qualche conoscenza storica sommaria per demolire il ritratto come si diceva banale del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che sembra quasi tentato da una strategia della tensione in virtù del suo viscerale anticomunismo (retaggio forse dell’antipatia per questo coraggioso uomo politico, che nel 1948 salvò l’Italia uscendo dal Partito Socialista filocomunista e alleandosi alla Democrazia Cristiana con il suo Partito Socialdemocratico ); possibile liquidare così uno degli statisti principali, e sincero difensore della democrazia, che l’Italia abbia avuto? E anche la figura di Aldo Moro, nonostante la bravura “mimetica” di Gifuni, è viziata da troppo “senno di poi” (il futuro martire delle BR sembra già consapevole della propria futura tragedia). Soprattutto, Moro – qui visto quasi come un “progressista”, quando la “contestazione” del ’68 lo dipingeva come acerrimo nemico – è rappresentato come un politico e un uomo alle soglie della disperazione, che auspica confusamente un’apocalisse italiana per ripartire da zero. Del suo reale pensiero e della sua fede cristiana, ahinoi, nemmeno un accenno.
Antonio Autieri