I ragazzi che “volevano prendere Roma”. I ragazzi di borgata che fin da piccoli volevano fare i banditi e che finirono per essere distrutti da quello che loro stessi avevano creato. Tra droga, violenze di ogni tipo e collusioni torbide con le stanze del Potere. E’ questa, in estrema sintesi, la storia della Banda della Magliana, il famigerato gruppo di criminali che, dalla metà degli anni ’70 fino agli anni ’90, ha riempito le pagine di cronaca nera dei quotidiani italiani. Il Libanese, il Freddo e il Dandi, rivivono grazie alla sceneggiatura solida e decisa di Sandro Petraglia e Stefano Rulli (una coppia sempre più d’oro del nostro cinema) e grazie ai volti di Pierfrancesco Favino (ottimo), Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria (entrambi in stato di grazia), oltre all’emergente Riccardo Scamarcio (notevole, anche se poco impegnato). Partendo da un prologo drammatico e intenso, che, nonostante la sua brevità, offre spunti di riflessione non indifferenti sulla perdita dell’innocenza, la possibilità di redimersi, la predestinazione e la Colpa che prima o poi sarà espiata, il film si protrae per più di due ore raccontando, con puro realismo, a tratti quasi sgradevole, i sequestri di persona operati dalla banda, gli omicidi, i regolamenti di conti e le gelosie interne che finirono per distruggerla. E se da una parte Michele Placido, ispirandosi al fortunato romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo, non rinuncia ad inserire nel film tutte le componenti più caratterizzanti del genere noir, come la torbida prostituta Cinzia (Anna Mouglalis), ambigua e vera dark lady, il Commissario Sciajola (ben interpretato da Stefano Accorsi, che questa volta si sacrifica accettando un ruolo secondario) determinato ma allo stesso tempo fragile di fronte al “fascino del male”, o la ragazza borghese e colta (che richiama le pagine di Scerbanenco) che viene “deviata” dall’attrazione per la criminalità (la brava Jasmine Trinca), dall’altra affonda la lama nell’aspetto più inquietante della vicenda, e cioè le presunte collusioni e protezioni politiche che la banda sembra aver avuto nel corso degli anni. Ed ecco quindi le rivelazioni sul caso Moro e sulla strage di Bologna, dove, a quanto pare, gli ex-ragazzi di periferia sembrano aver avuto un ruolo non indifferente. Ma Placido, nel mettere in luce questi aspetti più scottanti, non ha lo stesso coraggio che dimostra di possedere quando descrive e racconta le vicende “di violenza” e gli aspetti più umani e privati dei protagonisti. Resta allora allo spettatore la bella prova di Gianmarco Tognazzi, nella parte del cupo e misterioso “funzionario” dello stato, ma quanto alla chiarezza su quello che realmente accadde, e quanto ai nomi dei protagonisti, tutto resta avvolto in una scura linea d’ombra. Più di ogni altra cosa, di questo “Romanzo Criminale”, rimane, con tristezza, quel sogno malato di quattro ragazzini di periferia, che in una notte di tanti anni fa, dopo una bravata e un incidente stradale, si convinsero di poter cambiare il mondo con le armi e la violenza, senza accorgersi che la morte era già lì, al loro fianco, e che nessuna fuga avrebbe mai potuto metterli al sicuro dalla fine e dalle conseguenze dei loro atti. La salvezza e la redenzione restano solo un sogno, una possibilità alternativa incompiuta e mai realizzata, proprio come Placido ci illustra nella bellissima sequenza finale.,Francesco Tremolada