Leone d’oro all’ultimo festival di Venezia, l’ultima fatica del regista messicano premio Oscar Alfonso Cuarón esce finalmente al cinema (anche se per pochi giorni, prima del passaggio sulla piattaforma Netflix, che l’ha coprodotto).
Cuarón mette in scena due anni nella vita di Cleo, una domestica in una famiglia benestante di Roma, un quartiere di Città del Messico all’inizio degli anni 70. Sono gli anni dei dissensi politici che fanno da sfondo alle tragedie umane, Cleo rimane incinta in una gravidanza non voluta, la famiglia viene abbandonata dal padre che scappa con una donna più giovane… Roma è un film potente, ambizioso, fluviale come un romanzo storico, ma allo stesso tempo attaccato alla sua protagonista. Cuarón – già autore di grandi film come I figli degli uomini e Gravity, quest’ultimo gli fece vincere il premio Oscar), scrive, dirige, monta e fa da direttore della fotografia (tutto benissimo!): un sofferto ritorno in patria dopo anni di (auto) esilio (e successo) a Hollywood. Stilisticamente è molto diverso dagli altri film del regista: il piano sequenza è ancora l’elemento registico fondante, ma alla macchina a mano sempre in movimento dei Figli degli uomini e Gravity prende posto il cavalletto con lunghe inquadrature fisse o panoramiche circolari, fino a, verso il finale, lunghi carrelli laterali. Lo stile visivo ricorda il cinema “contemplativo “ d’autore dei polacchi Miklós Jancsó o di Bela Tarr, o (perché no?) anche qualcosa del maestro russo Andrej Tarkovskij, riaggiornato però in una logica da grande pubblico e da kolossal storico occidentale più alla David Lean (Dottor Zivago, Lawrence d’Arabia). Un film pieno di cinema (e anche una divertita autocitazione: il film che la coppia vede al cinema ricorda molto il già citato Gravity), perché a queste già diverse matrici si unisce il melodramma familiare classico hollywoodiano: la storia in un certo senso non sarebbe affatto dispiaciuta a Douglas Sirk e ne ricorda un po’ Lo specchio della vita, nell’accostare padrone e serve, farle avvicinare ed entrare in empatia, raccontarne la femminilità e la difficoltà della maternità. Incredibili i vari reparti tecnici, dalla fotografia in pellicola in bianco e nero dello stesso Cuarón che fotografa gli splendori e le miserie del Messico in quegli anni, e il comparto scenografico degno veramente di un kolossal di altri tempi.
Un film quindi visivamente stupefacente, che veramente pochi film contemporanei possono eguagliare e che quindi è un peccato vedere distribuito sulla piattaforma di streaming Netflix, perché il piccolo schermo difficilmente può rendere giustizia alla potenza visiva del film. Questa potenza visiva però, come nei grandi film, diventa potenza emotiva soprattutto in almeno due scene (il parto e il finale). Nel tema il film è estremamente coerente con le altre opere del regista ed è estremamente corente al suo interno nella narrazione e nel rielaborare le già citate forme cinematografiche. Il tema è ancora la maternità, raccontata in due classi sociali diverse ma in fondo simili, l’essere madre come una fatica ma anche come un dono primitivo. La fertilità della donna e la fertilità della terra, quella terra del Messico che Cuarón riscopre dopo tanto tempo e di cui racconta i misteri con stupore. Ne racconta gli elementi caricati di significati mistici in versione quasi panteistica, dal vento al fuoco, fino all’acqua che è fonte battesimale e luogo di ri-nascita a una vita nuova. Probabilmente (per chi scrive almeno) un capolavoro. Imperdibile. E da vedere assolutamente sul grande schermo, nei pochi giorni in cui c’è l’occasione grazie alla Cineteca di Bologna.
Riccardo Copreni