Stanco e in pensione, Rocky Balboa ha appeso i guantoni al chiodo e, nel perenne ricordo dell’amata Adriana da poco scomparsa, gestisce un piccolo ristorante a Philadelphia. Attraversando la città in una notte malinconica, accompagnato dal cognato Paulie (sempre lui, Burt Young) e ripassando per i luoghi resi celebri dal primo capitolo della saga (il negozio di animali dove corteggiava Adriana, il vecchio bar dove incontrava gli amici, il palazzetto del ghiaccio ormai ridotto ad un ammasso di macerie) constata la tristezza della sua esistenza e ripensa al suo passato che, amaramente, non torna più. Mentre il figlio fatica ad accettare un padre consegnato alla leggenda e indugia nel volerlo riabbracciare, un giovane pugile arrogante lo convincerà a tornare sul ring.
A trent’anni di distanza dal primo capitolo della saga, Stallone decide di chiudere i conti con il personaggio che lo rese celebre e che gli diede fama e notorietà, uscendo di scena come un fantasma che si dissolve e dicendo addio a quel mito che lui stesso aveva creato. Peccato però, perché a questa pregevole e nobile intenzione non corrispondono né una sceneggiatura credibile, né una narrazione fluida e tanto meno una regia frizzante. Certo, il tono malinconico funziona e anche l’ambientazione “povera” che richiama vistosamente il “Rocky” del ’76 è accattivante (i luoghi, le strade, persino i personaggi sono gli stessi del film di Avildsen. C’è addirittura Spider Rico…) ma tutto è troppo sbrigativo, tutto è scritto troppo frettolosamente e si finisce inevitabilmente per rovinare ogni buona intenzione di partenza. Si pensi, ad esempio, al “licenziamento facile” di Paulie (creato ad hoc per essere funzionale alla trama, ma talmente ridicolo da suscitare la risata involontaria), oppure alla soluzione del rapporto difficile con il figlio (che si risolve, appunto, sbrigativamente e superficialmente, in un imbarazzante e scontato rimprovero per strada). In questo senso, anche il rapporto sentimentale con la protagonista femminile appare troppo superficiale e scontato e soprattutto non spiegato e chiuso male. (Si amano? non si amano? Rocky vuole sostituire Adriana o è ancora fermo nel suo ricordo?). Quali siano, poi, le reali motivazioni che spingono Rocky a tornare a combattere è impresa ardua da risolvere (sentirsi ancora vivo? Dare una lezione ad un arrogantello che lo provoca? Dimostrare al figlio che nella vita non bisogna stancarsi mai di lottare?) A peggiorare la situazione, un pessimo doppiaggio che rende tutto ancora più approssimativo e scomposto.
Cosa rimane di buono in questo film, che profuma tanto di banale operazione commerciale volta (peraltro non fortunatissima) e che lascia un esorbitante numero di punti interrogativi? I temi resi celebri dal pugile di Philadelphia, che nonostante tutto non perdono la loro forza: la volontà di aiutare sempre le persone in difficoltà, la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, la forza di rimanere sempre in piedi nonostante tutti i ganci e i diretti che la vita, spesso, ti tira addosso. Poteva essere un degno saluto ad un grande personaggio del cinema moderno che ci ha tenuti incollati davanti agli schermi, è soltanto un mediocre abbozzo di cinema di un patetico Stallone.
Francesco Tremolada