In Ritorno a Seoul, Freddie è una ragazza francese di 25 anni che va per la prima volta a Seoul per provare a incontrare i suoi genitori biologici che l’avevano abbandonata appena nata. Si trova immersa in un mondo totalmente sconosciuto per abitudini, ambienti e lingua. Se il padre acconsente a rivederla, la madre assolutamente no. Tornerà più volte ancora nella capitale coreana per ragioni di lavoro ma sempre alla ricerca di colmare una ferita difficilmente sanabile…

Secondo lungometraggio per il regista franco cambogiano Davy Chou, Ritorno a Seoul è un film sulla faticosa ricerca da parte della protagonista Freddie (Park Ji-min) di ricongiungersi alle sue origini coreane e, così facendo, non solo conoscere i suoi genitori ma anche sanare una ferita e recuperare una propria identità anche se è stata cresciuta con affetto e amore dai genitori adottivi francesi. La prima parte del film, che dura circa un’ora, descrive bene lo straniamento di Freddie appena arrivata in Corea del Sud, il suo essere totalmente straniera, senza nulla in comune con gli altri, neanche la lingua. L’incontro con il padre – favorito dal centro che si occupa dei figli adottivi e che seguì anche il suo caso – la delude e non la soddisfa. Anzi la infastidisce il senso di colpa che pervade l’uomo che, una volta conosciutala, la tormenta con messaggi e spera che lei possa vivere insieme alla sua nuova famiglia. Il tarlo, però, rimane quello della madre che si rifiuta di incontrarla.

Questa esperienza segna Freddie che vediamo tornare a Seoul due anni dopo la prima visita e cinque anni dopo. Il richiamo con la terra di origine è sempre più forte ma le inquietudini non passano, così come è evidente che la ragazza non riesca a trovare un proprio equilibrio, neanche con il fidanzato francese Maxim. L’avviso inaspettato che potrebbe cambiarle la vita è quello che riceve dal centro adozioni che le comunica che finalmente la madre acconsente a incontrarla.

Davy Chou realizza un dramma interiore molto solido nella prima parte e più discontinuo nella seconda. Un film in cui il tratto e il contenuto emotivo sono molto controllati e che concede poco o nulla alla retorica. Park Ji-min è bravissima a rendere gli stati d’animo che la attraversano e che la rendono una persona difficile con cui stare o con cui creare legami, a tratti sprezzante e arrogante. Una persona sola e forse destinata alla solitudine, che rischia di andare alla deriva e che soffre tremendamente per il fatto di essere stata abbandonata. Peccato che la storia riservi un ruolo marginalissimo alla madre adottiva; sarebbe stato un ulteriore arricchimento al racconto. Presentato al Festival di Cannes 2022, nella sezione Un Certain Regard.

Stefano Radice

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