Una famiglia, i Restuccia, con storie di ordinaria infelicità: il padre voleva fare lo scrittore e ora vive nella gabbia di un matrimonio frustrante; la madre voleva fare l’attrice e invece insegna; la figlia vuol fare la velina in Tv; il figlio cerca l’amore e non lo trova…

Come il precedente L’ultimo bacio, anche il nuovo film di Gabriele Muccino conferma pregi e difetti del 34enne regista romano. Tra i pregi: la capacità di cogliere umori e tic non solo della sua generazione (i trentenni de L’ultimo bacio, che non sanno o non vogliono impegnarsi in rapporti stabili), ma anche di persone più giovani e più attempate; il che dimostra una qualche capacità di attenzione alla realtà circostante, oltre tutto nei modi freschi e frizzanti di uno stile mosso, nervoso, in altre parole accattivante (ben diverso dal minimalismo dei tanti epigoni del neorealismo). Tra i difetti: la scarsa profondità, se non proprio superficialità, di questa osservazione. Ne risultano personaggi spesso solo abbozzati, come ne L’ultimo bacio, o peggio ancora frutto di stereotipi come in Ricordati di me. Così il marito (Fabrizio Bentivoglio) è infelice e frustrato da un matrimonio che definisce “castrante”, la madre (Laura Morante, che fa l’isterica rompiscatole come ce la si immagina dopo pochi minuti) non è da meno perché sognava di fare l’attrice e si è adattata invece a fare l’insegnante e la madre. E poi i figli: la 17enne Valentina vuole fare a tutti i costi la velina in Tv e infatti passa da un uomo all’altro pur di riuscirci; (“le brave ragazze vanno in Paradiso, io voglio arrivare dappertutto…); il 19enne Paolo è insicuro per carenza di affettività, la ragazza che ama non lo vuole e lui si rifugia nelle feste a base di spinelli. Tutti chiedono ai consanguinei: “Tu come mi vedi?” in un crescendo di insicurezze represse; tutti vogliono dimostrare il proprio valore ai propri cari (?). Tutti vogliono non tanto essere (amati), quanto fare: lo scrittore, l’attrice, la velina…

Qualcosa ci arriva del loro dolore e della propria inadeguatezza a vivere, anche grazie ad attori capaci (soprattutto Bentivoglio e la Morante, ma Monica Bellucci – che fa l’amante di lui – è la vera sorpresa del film), alla bravura del regista nel farli recitare “naturali” cui si aggiunge appunto uno stile nervoso e mosso, fino alla naturalistica frenesia. Si potrebbe fare le pulci allo spontaneismo lessicale, con una dizione romanesca e spesso incomprensibile (il “teatrale” Gabriele Lavia parla così bene che sembra quasi doppiato!), ma soprattutto permane il sospetto di una calcolata epidermicità emozionale, come ancora (scusate il continuo parallelo) nel grande successo de L’ultimo bacio, dove però forse era meno calcolata (e proprio per questo fu un successo spontaneo). Come è calcolato il cinismo, la riflessione giustapposta (anche grazie a un’irritante e sbagliata voce fuori campo) sulla famiglia come tomba dell’emozione, dell’amore, della felicità, in una parola della vita. E così la famiglia Restuccia non è “una” famiglia alle prese con il dolore di vivere e di sbagliare: no, Muccino – che evidentemente non ama i suoi personaggi mediocri e insicuri, ed è questo il suo maggior limite  – racconta “la” famiglia per antonomasia. La rende simbolo di qualcosa di brutto, di triste, di agghiacciante. Non racconta una storia, pretende di dare lezioni contro la Famiglia. Il successo che raccoglie fa pensare.

Antonio Autieri