Dieci anni dopo American Beauty, celebrata e folgorante pellicola d'esordio, il regista Sam Mendes torna a frugare tra le villette a schiera della provincia americana fino a scoprire tutte le nevrosi, i tormenti e la disperazione della piccola borghesia che le abita. Tratto da un romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road si propone come uno dei film più espliciti sulla fine del sogno americano, un angosciosissimo incubo che intrappola i suoi personaggi in un labirinto senza uscita. Kate Winslet e Leonardo Di Caprio, che impersonano April e Frank Wheeler, sono interpreti di tale bravura da far dimenticare già dopo pochissimi secondi di film di essere gli stessi due innamorati romantici di Titanic. Proprio l'alchimia tra i due attori è fondamentale nella riuscita del dramma, giacché le parti cruciali del film consistono negli scambi fuori dai denti di questa coppia in crisi, in tesissime scene di dialogo alcune delle quali da antologia. Lo scontro tra i coniugi si gioca sul diverso approccio alla realtà della loro crisi, perché se la moglie ritiene che solo un cambiamento drastico del loro stile di vita possa ridare vitalità al rapporto (e progetta quindi uno spostamento dell'intera famiglia in una Parigi sognata e idealizzata), il marito, che nelle scappatelle con una segretaria ha già trovato il rimedio alla noia, si lascia sedurre da un aumento di stipendio e da una promozione per sostenere, mentendo a se stesso e a sua moglie, che tutto sommato la felicità è a portata di mano (senza però fare mai nulla di concreto per procurarsela o per dimostrare di poterlo fare). Quando dopo una notte di passione arriva il terzo figlio, arriva anche il momento delle scelte importanti e tutto quello che sapeva di falso e di costruito nella loro vita, è costretto in un modo o nell'altro a saltare. Revolutionary Road è un film che prende alla gola e toglie il respiro, accodandosi purtroppo al già nutrito filone dei film che fanno a pezzi senza sconti l'istituzione della famiglia (non solo quella dei Wheeler, ma nessuna delle altre famiglie del film merita uno sguardo benevolo). Quando la sceneggiatura mette in bocca ai personaggi affermazioni che tentano di infrangere la cortina di nonsenso e di disperazione, se ne sottolinea puntualmente l'ipocrisia e la meschinità, e la persona più lucida del gruppo con un espediente che funziona benissimo la prima volta, un po' meno la seconda, è il matto del villaggio, il paziente di una clinica psichiatrica in libera uscita con due genitori ben più inquietanti di lui. Come i soldati di Jarhead, il film di Sam Mendes sulla Guerra del Golfo, anche questi protagonisti sembrano distruggersi ed impazzire nella perpetua attesa di qualcosa che non accade, tanto da assomigliare talvolta ai caratteri del teatro dell'assurdo (i coniugi parlano e sempre si comportano come se non avessero figli, così che quando i bambini compaiono per la prima volta, ma anche quelle successive, si ha un effetto straniante). Tuttavia, rispetto al gelido e inappuntabile rigore formale dei film precedenti, Sam Mendes riesce davvero ad aggiungere un quid emotivo non indifferente e stavolta il risultato è quello di un pugno nello stomaco non salutare ma almeno ben assestato. Merito degli attori, comunque, se le emozioni, ora quella dell'orrore (più frequentemente) ora quella della pietà (più raramente), affiorano e prendono corpo. Merito anche della sceneggiatura, del quasi esordiente Justin Haythe, di cui vale la pena segnarsi almeno una battuta, pronunciata dalla moglie inquieta e desiderosa di sentirsi viva: “La verità non smette di esistere, si può solo diventare più bravi a mentire”. ,
Raffaele Chiarulli