Quando un uomo vestito da motociclista americano, con tanto di cappellone da cowboy, entra alla Banca Centrale di Stoccolma tutti pensano a una normale rapina, anche se l’agitazione è notevole tra impiegati e clienti. Poi il tizio, che si scopre chiamarsi Lars Nystrom, inizia a liberare la maggior parte degli ostaggi, tranne due giovani donne (e un uomo che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato). E chiede sì un milione di dollari americani, ma soprattutto pretende che sia liberato un pericoloso carcerato, il suo carissimo amico Gunnar, e una Ford Mustang per poter fuggire (per emulare lo Steve McQueen di Bullitt). Il capo della polizia prende tempo, attende istruzioni dall’alto, cerca di stanarlo. E intanto nasce una strana simpatia tra Lars e Bianca, una degli ostaggi: coraggiosa moglie e madre di due bambini, ma non insensibile ai modi gentili dello stravagante rapinatore.

La storia è vera (anche se con nomi cambiati): avvenne, come nel film, a Stoccolma nel 1973. E ha dato origine alla celeberrima “sindrome di Stoccolma”, ovvero quella particolare forma di dipendenza psicologica di un sequestrato dal suo sequestratore (se ne parlò parecchio negli Usa, poco tempo dopo, all’epoca del rapimento dell’ereditiera Patricia Hearst da parte di un gruppo di terroristi cui poi lei si legò). Una storia basata su un articolo del New Yorker che un paio d’anni dopo la raccontò. Il film, scritto e diretto da Robert Budreau, si prende libertà soprattutto nel tono, più che nei fatti raccontati: l’ex carcerato che cerca di liberare un vecchio complice molto più in gamba e carismatico di lui è stravagante e buffo, sembra non poter far paura a nessuno, ma poi quando si tratta di fare sul serio spara davvero, anche se mai per uccidere. Si teme sempre un po’ la “tarantinata”, come in quei film che cercano di imitare malamente l’originale e dove domina un umorismo “nero”; in cui prima si ride, e un attimo dopo si vede scorrere il sangue. Ethan Hawke si mette d’impegno nell’interpretare il protagonista, così come la brava Noomi Rapace che è spaventata e coraggiosa al tempo stesso nel ruolo di Bianca, la donna che si scopre attratta da lui. Mentre Mark Strong è efficace nel ruolo del compare, che forse fa il doppio gioco e forse no.

Quello che non risulta ben calibrato è il continuo cambio di tono: ogni tanto ci si diverte, e il film fa abbastanza simpatia se si sta al gioco; ma quando tale gioco si inasprisce e ci sono momenti in cui sembra virare in dramma se non in tragedia (con il capo della polizia che a tratti pare un tonto, e in altri momenti un duro che non esiterebbe a far morire gli ostaggi pur di chiudere il caso), si rimane un bel po’ perplessi. Senza contare gli accenni politici, tra gli “americani” che non si fanno gli affari loro (ma il rapinatore americano non è) e polizia e governo che sembrano non saper come salvare le vite di cittadini innocenti (e il martire della politica svedese Olof Palme, leader socialdemocratico ucciso anni dopo in un attentato, non viene trattato benissimo). Anche il romanticismo di fondo, che “deve” spiegare la sindrome da cui parte tutto l’interesse per la storia, funziona ma fino a un certo punto. O forse è proprio la sproporzione tra un fatto di cronaca abbastanza famoso (ma soprattutto in Svezia: lo stesso regista non sapeva, prima di iniziare a lavorare al film, perché la sindrome di Stoccolma si chiamasse così…) e la consueta storia d’amore tra due persone diversissime e destinate a non poter amarsi a sbilanciare Rapina a Stoccolma. Che rimane un film simpatico, pur se non viene naturale credere alla sua plausibilità, e che si può vedere soprattutto per le buone interpretazioni degli attori (nonché per la bella colonna sonora, con tante canzoni di Bob Dylan di cui Lars è un fan). Ma certo faticherà moltissimo a farsi ricordare, anche nei curriculum degli stessi interpreti che hanno partecipato a film ben più importanti.

Antonio Autieri