La storia è semplice quanto geniale: Gianni, un uomo abituato a una sonnacchiosa routine con la madre novantenne (ancorata a un passato nobile ma ormai in ristrettezze economiche), si ritrova la casa “invasa” da altre tre anziane signore. Due gliele appioppa l’amministratore di condominio in cambio del saldo di tutti i suoi debiti («a noi c’è convenuto» ammette sorniona la madre, in una delle gag che rendono irresistibile il film), la terza il proprio medico intervenuto a curare un piccolo malore di Gianni e impossibilitato a occuparsi della madre causa partenza della badante. Tra le quattro donne si instaura una simpatica complicità, che pure non esclude piccole tensioni soprattutto tra le due più caratteriali (la madre di Gianni e quella dell’amministratore Alfonso). Una complicità che porta addirittura a prolungare fino al pranzo di Ferragosto la permanenza, e a dolersi quando finirà quella breve ma liberatoria parentesi di vitalità di gruppo (al pranzo si unisce lo stralunato e avvinazzato “Vichingo”). E a tentare di “corrompere” Gianni, in breve già stanco dei loro capricci e dello scompaginamento delle sue abitudini, perché accetti di proseguire quel curioso ménage

Gianni (come il protagonista da lui interpretato, non a caso) Di Gregorio debutta alla regia alle soglie dei 60 anni dopo numerose esperienze da aiuto regista e sceneggiatore, soprattutto con il Matteo Garrone di Gomorra (e Di Gregorio era nel gruppo degli sceneggiatori di quel film) che gli ha prodotto Pranzo di Ferragosto. Lo fa con una storia breve, apparentemente fragile ma acuta e intelligente, tenera e surreale, che senza fare la morale dice sulla terza età più cose di tante pellicole più ambiziose. Vi riesce, come le migliori commedie, facendo sorridere (e a tratti ridere, e anche alla grande), con quattro stupende “non attrici” che sembrano interpreti navigate da decenni di cinema e teatro. Soprattutto la “madre” Valeria de Franciscis regala una serie di battute e improvvisazioni strepitose, frutto di un’adesione alla materia (è anche lei una nobile decaduta, e anche lei vedova da tanti anni) che però non è da fraintendere. Il rischio del successo (meritato) che ha ottenuto Pranzo di Ferragosto – sorprendente se si pensa al tema, ai pochi mezzi, ai nomi sconosciuti coinvolti – è generare legioni di aspiranti autori che pensino che in fondo basti filmare la propria vita o quella di amici e parenti per fare un film con due soldi. Invece, come sempre, nel cinema non c’è nulla di impossibile ma nemmeno di scontato: per fare un buon film servono una grande idea di partenza, una scrittura che la rifinisca, persone che la traducano in atto (regista, attori, tecnici)… E soprattutto, una visione dell’umano che incontri il cuore dello spettatore. Il divertimento, ma anche a tratti la commozione, che suscitano le quattro vecchiette di Di Gregorio – appassionate della vita e non disposte a lasciarsi mettere da parte da figli e parenti – confermano tutto ciò.

Antonio Autieri