Capace come pochi di scegliere e dirigere gli attori, Ozon non è altrettanto impeccabile nella selezione e nella gestione del racconto, che nella sua sempre elegante messa in scena rischia spesso di trasformarsi in maniera; magari anche a tratti divertente, eccentrica o provocatoria, ma in definitiva non di rado fine a se stessa.
In questo caso la pellicola e l’interesse del regista ruotano tutti intorno all’attrice protagonista, una Catherine Deneuve nello splendore (anche chirurgicamente assistito) della mezza età inoltrata, impegnata ad incarnare una femminilità “d’epoca” capace di ribellarsi prima alle imposizione di un maschilismo retrogrado e volgare (incarnato dal marito despota Pujol, che la considera la “bella statuina” del titolo) e poi anche alle imposizioni di un romanticismo ideologico (quello di cui è portatore insospettabile il comunista Babin, con cui la donna ha avuto un’avventura e che l’ha aiutata a far liberare il marito) incapace di accettarla in tutta la sua esuberante vitalità. Di fronte a questa donna che respinge improvvisamente l’ipocrisia del marito traditore e ottuso viene meno anche la rivalità con la canonica segretaria amante (conquistata alla causa), mentre la figlia finisce per rappresentare un fasullo modello borghese in cui la famiglia e i figli sono solo una catena e il perbenismo riceve la sanzione peggiore, che altro non è che il suo stesso perpetuarsi senza prospettive di cambiamento. Al fianco della madre, guarda caso, si schiera il figlio maschio (figlio del tradimento non romantico, naturalmente) che si scopre la passione per il disegno e forse anche una preferenza sessuale differente (che beffardamente rimette in gioco la possibilità di quell’incesto che Pujol temeva quando il ragazzo pensava di sposare la figlia di una sua antica amante).
Si parla degli anni 70 strizzando l’occhio all’oggi mettendo alla berlina un mondo borghese in cui è difficile trovare chi o cosa si salvi, in primo luogo l’istituzione familiare, una volta di più oggetto di uno sguardo negativo in quanto luogo di costrizione e ipocrisie. Il gusto dissacrante per la caricatura, che è tipico di Ozon e che prevale anche sull’istanza femminista, insieme all’evidenza di una matrice teatrale finiscono, però, per rendere la pellicola più un gioco colto e di citazioni, benché a tratti divertente e divertito, che uno spettacolo coinvolgente in cui il trionfo finale dell’eroina/attrice lascia con ben poca soddisfazione.
Luisa Cotta Ramosino,