Geppetto è un falegname poverissimo, che per mangiare deve inventarsene di tutti i colori o dipendere dalla generosità altrui. Un giorno decide di costruirsi un burattino  di legno, in modo da potergli fare un’illusoria compagnia: ma quando dal legno esce una voce tutto cambia, è “nato” Pinocchio. E lui gli farà da padre. Ma il piccolo burattino fa subito ammattire il padre, scappando e disubbidendo: finirà prima nel circo dei Burattini, poi nelle grinfie del Gatto e della Volpe che si professano suoi amici ma vogliono rubarle delle monete d’oro ottenute vendendo l’abbecedario a un negoziante. E poi incontrerà la Fata Turchina, cui chiederà di diventare bambino, e tanti altri personaggi.

Matteo Garrone si accosta con deferenza all’opera di Collodi, rispettando sostanzialmente gli avvenimenti principali, il tono, le scelte (la maggior parte dei personaggi  sono animali antropomorfi, come il giudice scimmia o gli inquietanti conigli becchini) e lo splendido linguaggio della Toscana di fine Ottocento, e recuperando l’idea suggestiva della Fata prima bambina e poi donna: punta molto sull’accoppiata inedita formata da Roberto Benigni/Geppetto e dal piccolo Federico Ielapi/Pinocchio (che si è sottoposto ogni giorno a ore di trucco per poter avere quella faccia “legnosa”), entrambi convincenti. In scenari spesso da favola, ma con accadimenti spesso angosciosi o spaventosi (come nel testo originario: si pensi all’impiccagione del burattino), Garrone conferma le sue grandi doti visive e “pittoriche”, frutto anche della collaborazione con uno staff tecnico-artistico di prim’ordine: dalla fotografia di Nicolaj Bruel al montaggio di Marco Spoletini, dalle scenografie di Dimitri Capuani ai costumi di Massimo Cantini Parri, fino alle musiche di Dario Marianelli. Tutto è estremamente curato: ogni dettaglio, ogni paesaggio, ogni costume, ogni personaggio è ben definito. Senza contare lo strepitoso cast: accanto a Benigni e Ielapi, ci sono – tra  tanti – Gigi Proietti/Mangiafuoco, Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini nei panni del Gatto e la Volpe, Davide Marotta come Grillo parlante; con Ceccherini, che debutta anche come sceneggiatore, che sorprende per bravura ed è forse il migliore di tutti. Fa piacere che qualcuno finalmente se ne sia accorto delle sue capacità, spesso sprecate.

Ma nell’ansia di essere fedeli a un romanzo (anche nelle incongruenze, come il burattino fin troppo spigliato nel parlare dopo pochi minuti della sua “creazione”), spesso i registi si autocensurano e frenano la propria verve. Non è il caso di Garrone, uno che ama il cinema ma non i suoi rituali, ma che già aveva avuto difficoltà simili con Il racconto dei racconti, tanta perfezione frena l’emozione; solo che lì c’erano inquietudine e a tratti paura. Qui, un film che Garrone stesso ha definito per tutte le famiglie, potrebbe risultare a tratti un po’ freddo e “lontano”. Il divertimento è un po’ sofisticato, garantito dai caratteri e dal linguaggio (oltre a qualche gag, come le scivolate a casa della Fata Turchina davanti al capezzale di Pinocchio moribondo); il rischio è come molti non stiano al gioco.

Detto questo, la storia è immortale e bellissima, e sempre efficace. Chi già lo conosce, si ritroverà a casa; chi non la ricorda bene o non ha mai avuto occasione di leggere il libro di Collodi o vedere le versioni cinematografiche o televisive (l’indimenticabile sceneggiato anni 70 di Luigi Comencini rimane insuperabile), potrà recuperare e apprezzare un’opera che sembrerà nuova; in quest’ottica, ai bambini – magari non troppo piccoli, dagli 8-10 anni in su – dovrebbe piacere; ma il condizionale è d’obbligo. Garrone peraltro ci aggiunge di suo un’inedita tenerezza, in particolare nel rapporto tra padre e figlio (che gli sta molto a cuore, come ha fatto capire anche con varie dichiarazioni), ma anche tra Pinocchio e la Fata Turchina (prima bambina, poi adulta).

Rimane anche l’ammirazione per l’impresa produttiva (una coproduzione internazionale Italia/Francia: il film è prodotto dalla Archimede di Garrone con Rai Cinema e con il produttore inglese Jeremy Thomas in associazione con Leone Film Group, Hanway Films e i francesi di Le Pacte), importante e coraggiosa, che guarda anche ai mercati internazionali . E per un talento di uno dei nostri registi migliori, che convince di più quando racconta storie originali e “sue”. Ma che confrontandosi con Pinocchio – notoriamente un grande azzardo per chi fa cinema: tanti hanno fallito, anche negli Usa – ha avuto il coraggio di inoltrarsi su un terreno pericoloso ma anche di “rischiare” di essere più popolare del solito. Vedremo se il pubblico – anche di bambini e ragazzi, cui è rivolto principalmente, insieme agli adulti che non hanno dimenticato il bambino che furono– lo seguirà su questa strada oppure no.

Antonio Autieri