Passione o testardaggine, esasperazione per le difficoltà e le ottusità contro cui deve combattere o follia per quanto ancora ben camuffata? Quella di Pierre, un giovane che vive in una fattoria affidatagli dai suoi genitori, è tutte queste cose insieme. Giovane ma “vecchio dentro” tra paure e chiusure verso il mondo (gli amici che vede poco e di malavoglia, la ragazza che la madre vorrebbe frequentasse), Pierre fa bene il suo lavoro: la sua piccola fattoria, con una trentina di mucche, è la prima della regione per qualità del latte anche se arranca dal punto di vista quantitativo; e se attorno c’è chi si industrializza, per esempio con l’introduzione di robot per mungere il latte, il giovane è attaccato ai metodi del passato. A un certo punto però Pierre inizia a temere che le notizie su un’epidemia di febbre emorragica, scoppiata in Belgio, possa arrivare a colpire le sue amate mucche. Una in particolare sembra avere qualche sintomo, anche se la sorella veterinaria – irritata dagli atteggiamenti del fratello – inizialmente lo rassicura. Quando poi i dubbi diventeranno certezze, le scelte prese per salvaguardare il resto della piccola mandria – che rischia di essere abbattuta per evitare il contagio, secondo i protocolli – saranno sempre più difficili.
Esordio alla regia del 32enne Hubert Charuel (coetaneo del protagonista) che conosce l’argomento e la regione in cui è ambientata la storia, Petit Paysan – che ha debuttato alla Semaine de la Critique a Cannes 2017 – è la sorpresa della stagione 2017/2018 in Francia, dove è stato candidato a ben 7 premi César (il riconoscimento nazionale del cinema transalpino) vincendone ben tre tra cui oltre a quello per l’opera prima anche il premio per il miglior attore che è andato all’intenso (e un po’ inquietante) Swann Arlaud, davvero notevole nel dare corpo al personaggio di Pierre, che sembra uscito da un romanzo ottocentesco “contaminato” però con temi e umori della contemporaneità: le ricerche che inizia a fare sul web (per la malattia e per i suoi rimedi), i video su Youtube di un uomo che ha perso tutto in un caso analogo, le allusioni a una burocrazia francese (e non soloo) soffocante, sovrastata da quella ancora più incombente dell’Unione Europea.
Ma il protagonista è anche “universale”, come uomo chiuso verso il mondo e verso gli altri (la serata con gli amici a bere e a giocare al bowling; il goffo appuntamento – quasi subìto – con la panettiera del paese; le tensioni con la madre, in nome di un’autonomia che sente di aver meritato con il proprio lavoro). Il film diventa, inoltre, sempre più un thriller cupo e angosciante, in cui ogni elemento e persona diventa a una minaccia e in cui Pierre sembra avere poche chance di sfuggire a una sorte sfortunata; ma senza contraddire gli elementi sociali ed esistenziali sopra accennati, ma anzi amalgamandoli con una certa coerenza. Così ci si arrabbia con il protagonista – e con il belga che vede in video e che poi andrà a trovare – per lo scarso aiuto che le istituzioni danno a chi finisce sfortunatamente in crisi (peggio: non si rispettano i patti Stato-cittadino, con rimborsi dovuti che non arrivano mai). E si soffre per le sue scelte affrettate e dirompenti, ma soprattutto per il progressivo scivolare in un’ossessione preoccupante.
Antonio Autieri