Per primo hanno ucciso mio padre è il quarto lungometraggio diretto da Angelina Jolie (quinto, se si considera anche il documentario del 2007 A Place in Time) e conferma il suo interesse per i temi umanitari: l’attrice e regista è ambasciatrice dell’UNHCR e già in Nella terra del sangue e del miele (2011) aveva messo in scena una storia d’amore sullo sfondo del conflitto in Bosnia. InPer primo hanno ucciso mio padre si concentra invece sul genocidio del popolo cambogiano ad opera del sanguinoso regime dei Khmer Rossi (1975-1978), portando sullo schermo l’omonimo libro autobiografico della scrittrice e attivista cambogiana Loung Ung, sopravvissuta alle violenze di quell’oscuro periodo.

La piccola Loung, cinque anni, è costretta ad abbandonare la propria casa insieme ai numerosi membri della propria famiglia in seguito alla presa del potere in Cambogia da parte dei Khmer Rossi. Ha inizio per la bambina e per i propri famigliari una lunga e dolorosa peripezia per il paese e per i vari campi di lavoro e addestramento messi in piedi dai “rivoluzionari”, in lunghi anni di violenze e privazioni. Ad Angelina Jolie va soprattutto riconosciuto il coraggio di aver voluto realizzare un film – splendidamente fotografato da Anthony Dod Mantle – il più possibile sincero e lontano dagli stereotipi hollywoodiani e di aver impiegato per questo solo attori cambogiani, che si esprimono nella loro lingua, rinunciando al facile traino dei nomi celebri e proiettando lo spettatore occidentale direttamente all’interno della vicenda e in una cultura distanti, senza la possibilità di mediazione e immedesimazione offerta da un personaggio “bianco” (come accade per esempio in Le urla del silenzio, che affronta sempre il tema del genocidio cambogiano). E inoltre la regista è molto brava a raccontare la vicenda attraverso gli occhi di Loung, spesso spalancati di fronte al completo terrore, a cui la bambina assiste ammutolita e incredula.

Ma proprio l’avere come protagonista questa bambina costituisce paradossalmente anche il principale punto debole del film. Il fatto che il personaggio rimanga sostanzialmente immutato e non mostri un vera e propria evoluzione narrativa, se non la crescente e terribile consapevolezza di quello che le accade intorno, rischia di trasformare il film in un lungo elenco di angherie e violenze di cui Loung – e noi attraverso lei – siamo spettatori impotenti, senza un nucleo drammatico che dia forza e incisività a tutta la vicenda e che coinvolga emotivamente lo spettatore. Per certi versi è replicato in Per primo hanno ucciso mio padre il vizio strutturale di Unbroken – sulla vita dell’atleta Louis Zamperini, prigioniero dei giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale – il cui protagonista, solido e incrollabile, subiva le esponenziali violenze da parte dei nemici nipponici. E l’impressione finale è che, nonostante le belle immagini e un soggetto importante come il genocidio cambogiano, se manca il dramma, non si possa pienamente parlare di racconto cinematografico e che un documentario sull’argomento avrebbe forse svolto egregiamente la stessa funzione.

Maria Elena Vagni