1941: quando va volontario in Europa, un pilota d’aerei dell’esercito Usa saluta la fidanzata giovanissima infermiera, che soffre per lui. Mentre si avvicina a lei il migliore amico del pilota, suo “collega” nell’aviazione. E intanto i giapponesi bombardano Pearl Harbor.
Un classico triangolo, quello dei due amici che si contendono l’amore della stessa donna, sullo sfondo dell’attacco giapponese agli Usa che causò l’entrata in guerra degli americani. Un interminabile “polpettone” sentimentale, con l’aggravante della vacuità dei tre personaggi principali; ma l’aspetto più triste, oltre a errori e omissioni dal punto di vista storico, è che uno dei fatti più tragici della storia americana viene immerso in un bagno non solo di retorica (ci siamo abituati) ma di inerte melassa, attraversato da scariche di azione frenetiche e confuse. Risultato: i giovanissimi che non sanno nulla di Pearl Harbor pensano sia tutta fiction, gli altri si arrabbiano.
Certi slogan del lancio pubblicitario, già mesi prima che il film venisse alla luce, dovevano già mettere sull’avviso. “Pearl Harbor sarà tre film al prezzo di uno: Titanic+Salvate il Sodato Ryan+Armageddon“. Il guaio è che il film è stato affidato al regista di Armageddon, Michael Bay, e non a due “talentacci” della macchina da presa come James Cameron o Steven Spielberg (registi, rispettivamente, di Titanic e Soldato Ryan). Al “minestrone” cucinato da Bay sotto l’ala del produttore Jerry Bruckheimer (con il quale aveva già realizzato, oltre ad Armageddon, il film d’esordio The Rock) si possono aggiungere senza tema di smentita Top Gun, con qualche reminiscenza di vecchio film di guerra, in particolare quelli che hanno già toccato il tema del bombardamento della base americana alle Hawaii. Il problema è che la ripresa, fino al plagio, di situazioni già viste in altri film (tanto il pubblico dei giovani, ormai il “grosso” del pubblico soprattutto in America, non ha memoria) non si trasforma in storia, mentre la Storia rimane a lungo sullo sfondo.Il cuore del film è infatti l’amicizia tra due giovani piloti dell’esercito americano (interpretati da Ben Affleck e Josh Hartnett), che si sfidano simpaticamente in evoluzioni acrobatiche dei rispettivi aerei militari (vedi Top Gun). Il primo, più tosto e coraggioso, va volontario in Europa a combattere per gli inglesi: gli Usa, infatti, non si decidono a entrare in guerra contro Hitler e i suoi alleati, nonostante l’escalation militare dei giapponesi. Il presidente Roosevelt vorrebbe, ma il Congresso gli si oppone e difende l’isolazionismo americano. Quando il personaggio di Ben Affleck, che ha lasciato la fidanzata-infermiera con promesse reciproche di amore eterno, è dato per morto dopo essere stato abbattuto con il suo aereo, l’amico e la ragazza cadono in depressione: sapranno, però, consolarsi presto insieme. Quando Ben Affleck (un attore che cerca diventare una star a Hollywood, ma per ora rimane l’ex fidanzato di Gwyneth Paltrow) torna vivo e vegeto a Pearl Harbor, scopre il “fattaccio” e il relativo pancione con bimbo in arrivo. Scazzottate virili, pianti e accuse di tradimento anticipano le imprese eroiche dei due piloti durante l’attacco giapponese (che arriva dopo tale, estenuante, melassa). Poi la guerra continua e dei due, tornati amici, ne rimarrà solo uno… Così la ragazza non dovrà scegliere. Hai capito a cosa servono le guerre?
Criticare questo film è come, per rimanere in tema, bombardare un ospedale da campo della Croce Rossa: errori storici, omissioni (Roosevelt sapeva dell’imminente attacco e lo utilizzò per forzare la mano al Congresso per l’entrata in guerra? Qui nessuno lo adombra), situazioni ridicole (il presidente, poliomelitico in carrozzella, che si alza in piedi quando decide la rappresaglia su Tokyo). Ci limitiamo a due aspetti. Dal punto di vista storico non è la libertà di racconto che disturba (anche se sentire il produttore dire che “non è una lezione di storia, ma un romanzo, una fantasia” avrà fatto infuriare più di un reduce), ma il fatto che una delle più grandi tragedie della storia americana non coinvolga emotivamente e non faccia venir voglia di saperne di più. I giovanissimi, che nulla sanno, lo vedono come un videogioco (i 40 minuti di battaglia spettacolare) intervallato, chissà perché, da interminabili parentesi rosa (nella vana speranza di arrivare al cuore femminile: meccanismo alla Titanic). Chi è più avanti nell’età si sente francamente preso in giro da dialoghi, scene, perfino musiche imbarazzanti. Dal punto di vista cinematografico, il trucco dei “tre film in uno” fallisce miseramente. Concentriamoci su Titanic e Salvate il Soldato Ryan, i due modelli più riconoscibili. In realtà Pearl Harbor è tutto ciò che i detrattori dei due film (soprattutto di Titanic) hanno scritto ingiustamente (per quei due ottimi film). Polpettone sentimentale con uso di effetti speciali nel primo caso, retorica di guerra e violenza esagerata nel secondo. Ma Cameron e Spielberg non sono solo registi con i fiocchi, ma uomini che credono che il cinema sia una cosa seria. Cameron ha raccontato una grande tragedia storica in parallelo con una storia d’amore vera, con due talenti giovani che credono fino in fondo al loro personaggio (chi detesta Di Caprio, considerato un erede dai grandi di Hollywood come De Niro, faccia il confronto con le evanescenti mezze figure di Pearl Harbor). Michael Bay usa male perfino un’attrice brava come Kate Beckinsale (rivelatasi nel gioiellino inglese Cold Comfort Farm). Spielberg, invece, ha saputo raccontare l’angoscia di tanti soldatini in mezzo alle pallottole, che sanno di poter morire da un istante all’altro; da americano, ha dato un senso nobile alla guerra, che comunque si rifà alla “filosofia” ebraica di Schindler’s list (“Chi salva un uomo salva il mondo”). Ma è pura insipienza pensare di superare il suo inimitabile sbarco in Normandia dei primi 25 minuti di film, letteralmente con il fiato sospeso, con 40 minuti di battaglia frenetica e confusa: aumenta solo il minutaggio e la vuota spettacolarità, non il senso di quello che si vede. Con Spielberg, noi ci sentiamo su quelle barche che svuotano giovani tremanti e possiamo immedesimarci con quella situazione storica, vissuta da uomini come noi. Con Pearl Harbor no.
Fermiamoci qui, per non dilungarci oltre. Ma da questo parallelo si può imparare che Titanic e Soldato Ryan usano effetti speciali e spettacolarità per veicolare un senso, storico e perfino esistenziale, mentre Pearl Harbor rientra appunto nella categoria Armageddon: vuote sciocchezzuole buone, al limite, per passare una serata. In questo caso nemmeno: te la rovinano.
Antonio Autieri