Dopo il brutto “Last Days”, Gus Van Sant sembra tornare con “Paranoid Park” a temi e suggestioni già presentati in “Elephant”, il film che gli valse la Palma d’oro a Cannes. Anche quest’ultimo film è stato premiato in Francia, pochi mesi fa, anche se “solo” con il Premio Speciale per il 60° anno del Festival. Ma a nostro avviso è decisamente superiore a “Elephant”, film prodotto dalla televisiva HBO. In quel caso Van Sant rievocava la terribile strage di Columbine con uno sguardo impassibile e “afono”, di chi di fronte al Male non sa cosa dire e si limita a rappresentarlo: non c’era pietà nel vedere le giovani vittime (figurine insignificanti, che sfilavano anche solo per pochi secondi) cadere l’una dopo sotto i colpi dei due coetanei assassini, e l’impressione era quella di una cinica constatazione dell’assurdità del vivere. Oltre a una freddezza di stile che serviva soprattutto a mettere in mostra l’abilità nei piani di sequenza.,Nel suo nuovo film, la tendenza di fondo del precedente lavoro si fa sentire a tratti: la tragedia è mostrata come frutto di un caso beffardo (e la scena della vittima orrendamente tagliata in due sembra tratta da un horror, tanto è sinistra ma anche grottesca) che si accanisce su un giovane puro, candido, impassibile di fronte alla dissoluzione della propria famiglia (agghiacciante la figura del padre: separato da tempo dalla moglie, è un estraneo che non sa nulla del figlio). Però è innegabile che stavolta almeno la figura del protagonista sia ben tratteggiata: abulicamente inespressivo e costantemente con la testa altrove (ed è bravo l’esordiente Gabe Nevins a interpretarlo), è un adolescente figlio del suo tempo, che di questi giovani pare non curarsene.,Lo stile è la marcia in più del film, che visivamente è a tratti molto suggestivo: lasciato perdere l’ermetismo vacuo di “Last Days”, Van Sant utilizza musiche (anche quelle felliniane di Nino Rota), rumori, sfocature, ralenti, dialoghi tra personaggi di cui non sentiamo le parole, salti e andirivieni temporali per mostrare un giovane che si lascia vivere e che non pare accorgersi di quel che lo circonda, sospeso tra sogni indefiniti e paure inespresse. Con la macchina da presa che gli sta addosso, a spiarne minime espressioni e reazioni. In un ambiente in cui i rapporti – emblematico quello con la fidanzata, che subisce: perfino il loro primo rapporto sessuale è descritto come un vaghissimo sogno senza emozione – sono davvero fragili e inutili. E in cui i “grandi” stanno ai margini dell’inquadratura, indifferenti e non meno abulici (ma il poliziotto che indaga mostra almeno un minimo di umanità). ,Purtroppo, dopo una prima parte molto incisiva, con la rivelazione del delitto il film si perde un po’. Ma rimane comunque un interessante, e sconfortante, ritratto di un ragazzo come ce ne sono tanti (e non solo in America) in un’opera che sembra un “Delitto e castigo” moderno. Peccato per una mancanza di giudizio di fondo del regista. Che quando lavora su “commissione” per Hollywood (“Will Hunting – Genio ribelle”, “Scoprendo Forrester”) ha ecceduto in retorica ma anche raccontato storie portatrici di senso. E quando dirige film “suoi”, sembra invece farsi vanto di non volerlo nemmeno cercare, il senso.,Antonio Autieri