Della grande sorpresa di Parasite agli Oscar – consegnati nella “Notte” del 9 febbraio – ne abbiamo fatto cenno a botta calda, a poche ore dalla consegna dei premi (si veda la notizia di qualche giorno fa, con l’elenco dei premiati). Non è stata la prima volta in assoluto di un film di produzione non anglosassone che vince l’Oscar per il miglior film, ma è la prima volta di un film non in lingua inglese: nel 2012 c’era stato il francese The Artist, ma essendo un film muto e oltre tutto girato a Los Angeles su una storia assolutamente hollywoodiana, la cosa fece meno scalpore. Invece Parasite viene da lontano come il suo regista, il sudcoreano Bong Joon-ho che trionfa nella Mecca del Cinema con un film “in lingua straniera” nelle categorie maggiori: impresa sfiorata ma non riuscita a grandi registi internazionali (compresi alcuni nostri autori: Fellini, che pure vinse 4 volte l’Oscar come miglior film straniero, ottenne invano altrettante candidature come miglior regista). Con 4 Oscar pesantissimi – miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior film internazionale – il 50enne autore asiatico (che nel 2013 si fece apprezzare anche con film “multinazionale” in inglese, il fantascientifico Snowpiercer) è sicuramente finito dritto nella storia. E celebra una cinematografia, quella della Corea del Sud, importante e all’avanguardia da decenni.
Ma è vera gloria? Meritava tutti questi premi il film, già Palma d’oro a Cannes 2019? Sicuramente Bong ha realizzato un grande film, molto curato e consapevole, una macchina da cinema quasi perfetta (continuiamo a vedere una grossa sbavatura nella clamorosa scena-chiave, che non citiamo a beneficio di chi non avesse visto ancora il film, e che ci convince poco sembrandoci fin troppo facile e caricata, pur all’interno di un film che spinge spesso il pedale del grottesco). Tra di noi, in Sentieri del Cinema, alcuni – in genere i più giovani – lo consideravano già da mesi il film dell’anno (come si è visto nei voti del nostro mini sondaggio di fine film 2019); altri, pur apprezzandolo molto, hanno prediletto altri film. A partire da Joker di Todd Phillips e Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, anche a parere di chi scrive davvero i film più potenti, cinematograficamente e umanamente (un piano di valore che spiega, in genere, la differenza nei nostri voti tra un consigliato e un imperdibile): a parità di qualità (diverse), due film che ci hanno emozionato molto di più; come pure C’era una volta a… Hollywood con l’epopea di Quentin Tarantino che ha omaggiato con infinito amore e affetto il mondo del cinema e i suoi protagonisti. Ma avevano i loro sostenitori anche The Irishman e l’appena uscito 1917, che dopo i Golden Globes sembrava destinato a trionfare nei premi maggiori. L’impressione è stavolta che la selezione fosse di grandissimo livello, più che in passato; e che di fronte a 9 ottimi “finalisti” nella categoria miglior film (c’erano anche Jojo Rabbit, Le Mans ’66 e Piccole donne), gli oltre 7mila votanti si siano divisi tra i vari titoli invece di concentrarsi – come in genere accadeva – su due o tre titoli leader – favorendo così la vittoria di un outsider. Siamo meno propensi a letture “rivoluzionarie” (una rivolta dell’Academy contro le scelte produttive del suo stesso mondo? Certo che se ne leggono di cose strane, anche da parte di celebri e autorevolissimi commentatori…) e pure quelle politiche: gli Oscar a un regista asiatico per sottolineare le posizioni anti-Trump di Hollywood? Strano, dal momento che un anno fa il ben più politico e messicano Roma (e più politico anche solo perché messicano, il suo autore Alfonso Cuarón) fu sconfitto dal “rassicurante” Green Book; che in realtà era semplicemente più bello e più aperto al pubblico. Un rigurgito “di sinistra” per la lettura del film in chiave di lotta di classe (poveri contro ricchi)? Non ci convince neppure questa tesi: il film parla anche di quello, ma non ci immaginiamo una Hollywood – che pure simpatizza per Bernie Sanders in vista delle prossime elezioni presidenziali – che scelga in base alla vicinanza presunta di un film ai programmi elettorali di questo o quel candidato. Parasite ha semplicemente ottenuto più voti (ma il meccanismo è contorto, come si vide nel 2017 nella beffa che premiò il già dimenticato Moonlight ai danni del favoritissimo La La Land) dei suoi concorrenti, grazie anche alla frammentazione derivante appunto da un numero più alto del solito di titoli che potevano davvero aspirare al premio di miglior film.
Non crediamo neanche, dal canto opposto, ai boicottaggi contro gli esclusi, pur deprecando l’assenza di Richard Jewell di Clint Eastwood (che invece del presidente Trump è sostenitore). Anche perché non sarebbe facile dire chi di “quei 9” avrebbe potuto lasciargli il posto. Ma le assenze ci sono sempre, anche in altre categorie: si è parlato di “maschilismo” di ritorno, in spregio alle battaglie “Me Too”, per l’esclusione di Greta Gerwig dalle candidature alla miglior regia; e certo il suo Piccole donne era meraviglioso. Ma la verità è che non è affatto facile entrare in quella cinquina, soprattutto negli anni migliori come è stato il 2019 (fatto evidente sin dall’annuncio delle nomination). Tutto qui.
Infatti, al contrario che in altri anni, verdetti scandalosi non ce ne sono stati. E quindi accettiamo di buon grado la vittoria di Parasite. E apprezziamo parecchio i premi agli attori (Joaquin Phoenix per Joker, Renée Zellweger per Judy, i non protagonisti” Brad Pitt per C’era una volta… a Hollywood e Laura Dern per Storia di un matrimonio), quella per la sceneggiatura non originale al bellissimo Jojo Rabbit di Taika Waititi, i premi “tecnici” ma di valore per 1917 (3 statuette di cui una per la fotografia: cosa c’è di più artistico?) e per Le Mans ’66 – La grande sfida (due premi, di cui una per il fondamentale montaggio: il vero linguaggio del cinema). E perfino il premio per i migliori costumi, che permette a Piccole donne di non tornare a casa a mani vuote. Com’è invece risultato Martin Scorsese, per mesi considerato favorito dalla critica (forse soprattutto italiana) ma che con il suo pur monumentale The Irishman non ci sembrava in realtà avere le carte in regola per la vittoria finale (oltre al fatto di pagare forse, come Storia di un matrimonio, il marchio Netflix mal visto per noti motivi da una parte dei votanti). Ma l’omaggio di Bong Joon-ho al grande Martin, citato come modello e oggetto di studio negli anni giovanili, è forse un riconoscimento più sincero ed emozionante di un eventuale premio per un film che, al di là di qualche difetto, rimarrà comunque nella storia. Come, ne siamo certi, la maggior parte dei film in gara in questo anno di grazia cinematografica che si è chiuso con la consegna degli Oscar il 9 febbraio.
Antonio Autieri