Orlando Zurro è un anziano contadino della Sabina che lascia il suo paese per recarsi nella modernissima Bruxelles, dove il figlio che non vedeva da tempo è morto improvvisamente lasciando una figlia dodicenne e un affitto da pagare. Sbalzato di colpo in una dimensione di modernità sconosciuta e con un cuore indurito dalla vita del suo piccolo paese, Orlando si ritrova da un giorno all’altro a prendersi cura di una nipote che non sapeva di avere, in un mondo, una società, che proprio non riesce a comprendere e che gli appare come un intricato labirinto in cui non sa come muoversi.
Ciò che salta subito all’occhio nel film Orlando, diretto da Daniele Vicari è come la realtà sociale della grande metropoli europea, contemporanea e interculturale, dove il regista ci trascina insieme al suo reticente protagonista, sia descritta non per vie traverse, per sentieri selvaggi, ma al contrario per strade larghe e confortevoli dove l’impatto sullo spettatore è massimo e il margine di errore è minimo. Le circostanze in cui sono coinvolti i protagonisti – Orlando e la piccola Lyse (buon esordio per Angelica Kazanvoka) – non sono aggirate, ma sempre affrontate di petto. Vicari sceglie dunque una drammatizzazione lineare e diretta, rinunciando a giocare di sponda anche dove il materiale per farlo ci sarebbe. Mentre le scene dove Orlando si orienta a stento barcollando per le enormi vie di Bruxelles sotto gli spigolosi – a tratti espressionisti per la scelta dell’angolatura – grattacieli sono senza dubbio efficaci, in quasi tutte le altre sequenze lo sconvolgimento interiore di Orlando, abituato alla realtà univoca e tradizionale del suo paesino, viene descritto dall’autore in termini fin troppo didascalici: dalla gendarmerie che lo obbliga a mettere la mascherina, a un proprietario di colore che affitta una stanza a una famiglia bianca, fino a una cameriera con l’hijab che serve da mangiare in un ristorante…

Tutto questo voler mostrare le differenze toglie forse spazio all’altra grande tematica potenziale del film: la nostalgia (in questo caso pasoliniana più che pavesiana) delle proprie radici, la malinconia, presente in Orlando (basti pensare al suo rapporto con la fisarmonica e la musica), di una terra ormai lontana nello spazio – sia reale che simbolico – e anche nel tempo, destinata a scomparire sopraffatta da un futuro marchiato a fuoco con la forma del progresso irreversibile. Qui invece già il soggetto alla base (scritto dal regista) nasce orfano di un incipit “pastorale” e la vita di Orlando prima del tragico evento viene dipinta fin troppo approssimativamente, scaricando sulle spalle di un grande Michele Placido la responsabilità di caratterizzare il protagonista. È apprezzabile invece la scelta conclusiva, quasi in controtendenza con il resto della pellicola, di non risolvere la contraddizione nel rapporto nonno/nipote (e di conseguenza padre/figlio), in un finale volutamente “mutilato”, ma perfettamente riuscito.

Vicari, che dedica il film a Ettore Scola, guarda forse a De Sica per plasmare il suo Orlando Z., ma il risultato finale è una piatta commistione di idee rispetto all’austera complessità dei tratti stenografici tracciati da Zavattini e De Sica nell’indimenticabile Umberto D..

Giovanni Pesaresi

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