Dresda, 1937: Kurt è un bambino che va con la giovane e affascinante zia Ellie a vedere una mostra d’arte moderna. Ma la guida condanna quella forma d’arte, non piegata al servizio della nazione… Siamo in pieno Terzo Reich, e le conseguenze sulle persone saranno ancora più dure e violente come scoprirà presto il piccolo Kurt. Poi dopo la guerra il Paese viene diviso in due: arriverà il comunismo nella Germania Est, ma la concezione del Potere sull’arte e sulla libertà non sarà così diversa. Nel frattempo quel bambino, con il precoce talento per il disegno e la passione per l’arte, è diventato un ragazzo che cerca la sua strada. L’incontro con un’altra Elisabeth/Ellie gli fa scoprire un’altra dimensione del vero: l’amore. Ma significa anche conoscere suo padre, l’ambiguo e duro professor Seeband – ex medico nazista, riuscito a riciclarsi con il nuovo regime – che nasconde più di un segreto e che fa di tutto per allontanare la figlia da lui. Infine, ci sarà una terza stagione nella vita di Kurt nella Germania occidentale, dove la libertà non sarà sinonimo di facilità nella ricerca del suo posto nel mondo. Come artista, che deve cercare la sua personale forma espressiva (ben oltre mode e conformismi). Ovvero come uomo, perché l’arte è la sua via alla bellezza e alla verità.
Nel raccontare trent’anni di vita del giovane Kurt Barnert – sullo sfondo di tre epoche e dei drammatici eventi che segnano la storia tedesca – il regista e sceneggiatore Florian Henckel von Donnersmark si è ispirato liberamente alla vita dell’artista Gerhard Richter. Nell’incrocio tra storie personali e grande Storia, l’autore sembra a tratti ricordare il suo primo film, Le vite degli altri nel 2006 (che gli fece vincere l’Oscar per il miglior film in lingua straniera), cui seguì – “rapito” da Hollywood – il modesto The Tourist. Il ritorno in patria ha fatto bene al regista: Opera senza autore è meno compatto del suo folgorante esordio, anche a causa di una durata di tre ore – che pure non pesano affatto – in cui forse qualche dettaglio si poteva omettere. Ma al recente festival di Venezia, dove partecipava in concorso, il film ha sì diviso la stampa (non pochi i critici che l’hanno considerato un “polpettone” sentimentale, preferendogli opere ciniche o più “sperimentali” spesso ostiche e noiose) ma ha conquistato il pubblico pur esigente dei cinefili, emozionati dopo la lunga proiezione. Perché Opera senza autore è un film semplice, che tocca il cuore, con il dramma di un bambino che si vede portar via una persona amata: un rapporto che lo introdurrà alla grande storia d’amore con la ragazza che diventerà sua moglie (interpretata dalla brava Paula Beer, già apprezzata in Frantz); e un ricordo che lo segnerà, insegnandogli a non distogliere lo sguardo per vedere la realtà con occhi aperti, tanto da condizionare in modi inaspettati e potenti la sua stessa vocazione artistica.
Al cuore di un’opera ricca di spunti e di colpi di scena, in cui il percorso umano e artistico del giovane si fondono, c’è infatti anche il rapporto tra arte e verità (sia nazisti che comunisti condannavano appunto l’arte moderna e “libera” e ne reclamavano una “utile” al Potere), con una “repressione” delle idee e dei talenti che esaspera il desiderio di espressione e di libertà. Ma che troverà la sua definitiva e sorprendente strada grazie all’insegnamento di un improbabile maestro: uno scorbutico professore universitario che spinge Kurt (interpretato dall’intenso Tom Schilling) a non ripercorrere sentieri già battuti ma a trovare la propria strada mettendo sé stesso nelle proprie opere. Nonché a vivere la bellezza di ogni imprevedibile istante, anche nei momenti più dolorosi. Tanti i picchi emotivi fortissimi – grazie anche alla bellissima colonna sonora firmata da Max Richter – di un melodramma contemporaneo che, pur non esente da difetti (alcuni brevissimi episodi spezzano un po’ l’azione), si rivela capace di appassionare fino alla fine. E perfino di commuovere nel bellissimo, memorabile finale.
Antonio Autieri