Nel cinema degli ultimi anni è possibile ricostruire, attraverso una manciata di titoli, una tendenza comune a riflettere sul ruolo archetipico della violenza e del male nella formazione dei vincoli umani. Senza spingersi troppo indietro negli anni si può citare “Gangs of New York”, il – peraltro non riuscito – film di Scorsese che mostra la nascita sanguigna e violenta della civitas newyorchese, più recentemente “History of Violence” e “La promessa dell’assassino”, gli ultimi due film di Cronenberg, declinano lo stesso concetto su scala familiare; l’assunto del regista canadese, già presente in altri suoi film del filone horror (“La covata malefica”), sarebbe quello per cui la famiglia, intesa come cellula embrionale della società e paradigma di ogni relazione umana, nasce e si basa su una violenza latente e taciuta che però da un momento all’altro può esplodere trasformando l’apparente idillio in efferato thriller. Infine, è ancora nelle sale un film imperdibile che ha al centro, tra gli altri, il tema della contestazione dell’istituzione famigliare, ovvero “Into the Wild” di Sean Penn.,Il bel film di Lumet “Onora il padre e la madre” si colloca da questo punto di vista in una precisa tendenza ma lo fa con l’originalità e il carattere che non sono mai venuti meno al regista di “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, che il 25 giugno di quest’anno spegnerà 84 candeline.,Prima c’è la rapina, la vediamo subito: un uomo in passamontagna minaccia e insulta un’anziana signora dentro una gioielleria. Qualcosa va storto, la signora reagisce e spara, il rapinatore risponde al fuoco, alla fine moriranno entrambi. Una rapina è sicuramente una violenza e per alcuni un peccato, ma al cinema, forza dell’abitudine, è poco più di un cliché; fa più effetto allora che si tratti di una anziana signora maltrattata. La rapina è il centro del film sia temporalmente che come fulcro della narrazione. Di qui l’intreccio si snoda in maniera non cronologica, con continui salti indietro e in avanti nel tempo, mostrando gli stessi avvenimenti dal punto di vista di personaggi diversi. La tecnica è detta del flashback sincronico, e per capirci è quella resa famosa da altri film del filone “rapine perfette che finiscono malissimo”, pensiamo a “Rapina a mano armata” di S. Kubrick e “Le Iene” di Q. Tarantino. Lumet dal canto suo è abilissimo nel fa propria una tecnica antica: in “Onora il padre e la madre” gli eventi sono mostrati non secondo il loro naturale ordine cronologico ma in maniera tale da svelare gradualmente la natura e le motivazioni di quel male che noi vediamo, senza capirlo, fin dalla prima scena. L’ordine, si potrebbe dire, è morale: dall’effetto alla causa che lo ha prodotto, dal delitto al castigo. Con questa sintassi narrativa scopriamo prima che c’è stata una rapina in cui si è sparato e in cui una donna è morta, e poi che la rapina è stata organizzata dai figli della donna (la rapina così diventa un matricidio, “non tutti i peccati hanno lo stesso peso”, avvertiva una scritta all’inizio del film). Proprio quando lo spettatore si ribella (“Non è credibile, chi farebbe una cosa simile, rapinare e uccidere i propri genitori?”), il film comincia, con dei flashback dedicati a ciascuno dei quattro componenti della famiglia, a scavare nella psicologia di ciascuno (indagine sorretta dalle interpretazioni di due attori fuoriclasse, Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke), ci mostra degli uomini comuni, i loro problemi, la loro situazione affettiva, lavorativa, sociale, famigliare. Un deserto esperienziale e relazionale sempre più opprimente ma in cui non c’è niente di eccezionale, niente di incredibile, a parte un dato sconcertante: potremmo essere noi. ,Il quadro che gradualmente si delinea mostra sempre più una situazione senza via d’uscita, i personaggi sprofondano sotto il peso di azioni sempre più disperate. Come recita il detto irlandese evocato nell’efficace titolo originale (“Before the Devil knows you’re dead”), l’unica possibilità di felicità concessa ai lacerati protagonisti del film sarebbe quella di raggiungere il paradiso mezz’ora prima che il diavolo venga a sapere della loro morte. Speranza iperbolica e vana. Ciò che manca per il riscatto di tutti i personaggi del film è la possibilità del perdono: “È un mondo crudele” sentenzia il ricettatore di diamanti, fornendo al padre le prove della colpevolezza del figlio. Ed è emblematico che il luogo dove la possibilità del perdono viene drammaticamente negata è proprio la famiglia, che in questo modo diventa il centro di pulsioni profondamente contraddittorie, da un lato continuamente additato come spazio per una serenità lontana e irraggiungibile (la fuga dei due coniugi in crisi in un Brasile edenico), dall’altro come sede di dolori nuovi e antichi, di sofferenze intime e irrisolte. È attorno a questo nodo problematico che si costruisce l’apparato drammaturgico e morale di un film spietato in senso greco, che non fa nessuno sconto alle anime belle ma che non scade mai nella soluzione facile di un astratto cinismo.,Eliseo Boldrin