Amburgo, 2016. Katja (Diane Kruger) e Nuri Sekerci (Numan Acar) sono una coppia atipica. Si sono sposati mentre lui era in carcere a scontare una pena per spaccio di droga. Dopo la prigione i due riescono a reintegrarsi perfettamente nella società. Nuri riesce ad aprire un’agenzia e lei le fa da contabile. Hanno anche un figlio piccolo, Rocco (Rafael Santana). Sembrano i protagonisti di una favola moderna. Ma la tragedia è dietro l’angolo. Un pomeriggio, Katja lascia il piccolo Rocco nell’ufficio di Nuri nel quartiere turco-tedesco di Amburgo per uscire con un’amica, e poche ore dopo una bomba neonazista esplode proprio davanti all’ufficio, portando via a Katja marito e figlio in un colpo solo…

Impossibile, per commentare questo film, non accennare al primo fatto importante, anzi decisivo che caratterizza la storia (ce ne saranno altri: chi non volesse scoprire troppo, si fermi qui e legga il resto a visione avvenuta). Ispirato agli attentati neonazisti avvenuti in Germania dal 2004 al 2011, l’ultima fatica di Fatih Akin, valsa al regista tedesco di origine turca un Golden Globe e alla protagonista Diane Kruger il premio per la miglior interpretazione femminile a Cannes, inizia con i primi dieci minuti che sembrano il ritratto di una fiaba, in cui la giovane coppia Sekerci rinasce dalle ceneri dello spaccio e della prigione come un’araba fenice. Sono il simbolo dell’integrazione e del reinserimento sociale: tedesca lei, turco-curdo lui, con un adorabile e sveglio bambino occhialuto. La cosa che fa più impressione dell’inizio di questo film è il passaggio dalla favola alla tragedia. Non si vede l’esplosione della bomba davanti all’agenzia di Nuri, non si sente nessun boato, nessuna scena di guerriglia. Si vede solo Katja che dopo aver lasciato il figlio con Nuri, passa il pomeriggio con un’amica alle terme, e tornando all’ufficio scopre l’accaduto. Punto.

Il dolore che Katja si ritrova ad affrontare è uno dei più forti che si possano immaginare. E tutto il film mostra come Katja prova a stare di fronte a questo dolore. Prima passando attraverso la giustizia dello Stato e delle indagini, che presto portano a svelare l’ombra del neonazismo dietro la bomba e le morti innocenti di Nuri e Rocco. Vengono incriminati Edda (Hanna Hilsdorf) e Andrè Möller (Ulrich Brandhoff), anche loro una giovane coppia, “seguaci di Adolf Hitler”. Le prove sembrano schiaccianti, ma basta un cavillo e un piccolo errore per regalare l’assoluzione in dubio pro reo (nel dubbio, in favore dell’imputato).  Cosa resta per Katja allora dopo la Giustizia con la G maiuscola? Quella con la g minuscola, anzi quella che inizia per v: la Vendetta, la giustizia privata.

Akin è molto bravo a farci immedesimare nelle sofferenze della protagonista, facendo largo uso di primi piani – pregevole la sequenza in cui il giudice legge la sentenza di assoluzione – e scene al rallentatore; ma anche usando una fotografia cupa e delicata allo stesso tempo, e sfruttando al massimo la potenza simbolica delle ambientazioni: non a caso il film è diviso in tre parti (la Famiglia, la Giustizia, il Mare) che rimandano ai tre luoghi in cui si svolge la vicenda, cioè la casa dei coniugi Sekerci, il tribunale e il litorale greco. Anche la prova attoriale della Kruger è notevole – per prepararsi l’attrice tedesca ha anche partecipato ad alcune sedute di autoaiuto con vittime della violenza – supportata però da ottimi attori di contorno. In particolare, è da segnalare l’agghiacciante figura dell’avvocato dei Möller (Johannes Krisch) e quella del padre di Andrè Möller (Ulrich Tukur). Poco riuscita invece la parte ben più rilevante del legale di Katja, interpretato da Denis Moschitto.

Al di là del finale – e dei pur importanti temi di attualità che il film tocca – con doppio colpo di scena, su cui si può essere d’accordo o meno, la domanda che suscita nello spettatore questa pellicola è però: la giustizia dei tribunali o quella fatta con le proprie mani possono bastare al cuore dell’uomo? La risposta non è semplice, ma una cosa a noi sembra evidente: senza un orizzonte ultimo di significato, che vada oltre la vita e la morte, c’è posto solo per un dolore a cui non si può stare di fronte e il cui tentativo di risposta con la vendetta porta solo ad altro dolore. È però altrettanto evidente che in sofferenze come quelle di Katja non ci si può mai immedesimare del tutto, lasciando in chi le vive un senso di solitudine difficilmente colmabile. Molto riuscita è in questo senso una delle sequenze finali, che ci mostrano Katja di fronte al mare greco e in cui è palpabile la rassegnazione della protagonista di fronte alla prova che la vita le ha messo davanti.

Alessandro Giuntini