L’ultimo film di Spike Lee altro non è che il remake assai fedele del film del coreano Park Chan-Wook, il secondo della sua trilogia della Vendetta, vincitore a Cannes nel 2004 e a sua volta tratto da una serie di manga firmati da Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya. Una storia di vendetta, punizioni, incesti e violenze che all’epoca conquistò una giuria capitanata da Quentin Tarantino (e forse proprio in omaggio a lui ritroviamo qui nel ruolo di gestore della prigione Samuel L. Jackson). Riconosciuti i meriti di una regia molto professionale e di attori altrettanto validi nel cercare di dare corpo a personaggi che oscillano, volutamente, tra il realismo e l’astrazione di caricature paraboliche, l’operazione, per altro di poco successo anche in America, lascia assai perplessi.
L’originale coreano, abbondantemente spruzzato di violenza assortita e era il classico prodotto per il pubblico da Festival, ormai assuefatto alle provocazioni, ma aveva dalla sua una certa originalità e la convinzione con cui portava avanti il suo assunto si è comunque guadagnata una certa quantità di sostenitori. La trasposizione americana non dice nulla di nuovo (e forse anche i dieci anni passati nel mezzo, con operazioni altrettanto incomprensibili e altrettanto osannate tipo il recente Only God Forgive hanno reso tutti un po’ più blasé) e, ancor prima di giudicarne i (pochi) meriti artistici, ci si chiede quale ne fosse la necessità. Il protagonista Joe Douchette (Josh Brolin) è un uomo finito già prima che il misterioso rapimento venga a sospenderne la vita in un limbo che ha l’aspetto di una camera di motel di seconda categoria in una serie di giorni scanditi dal cambio di sfondo su una finta finestra, da lezioni di aerobica e programmi scadenti in tv, e dall’arrivo di cibo cinese sempre uguale. Lì dentro Joe, cattivo padre, marito ancora peggiore, dipendente dall’alcool, dopo aver saputo di essere stato incolpato ingiustamente dell’assassino della moglie, trova uno scopo oltre la sopravvivenza nella speranza di rivedere la figlia e di vendicarsi di chi lo sta punendo. Una volta uscito, però scopre che lo aspetta un’altra sfida: deve capire chi è il suo misterioso aguzzino e perché lo ha punito, altrimenti l’amata figlia morirà. Ad aiutarlo solo una dolce e problematica volontaria che incontra (non tanto per caso) sulla sua strada e che sembra straordinariamente desiderosa di aiutarlo. Da qui in poi la vicenda si dipana tra torture, scoppi di violenza (benissimo coreografata e ripresa, ma non per questo meno disturbante, come nella sequenza di quasi quattro minuti in cui Joe, solo e armato di un martello, abbatte un’armata di avversari) indagini su internet (con cui Joe, imprigionato nel 1993, non si trova molto a suo agio, come del resto con gli smartphone usati ormai per fare qualunque cosa), riscoperta dei sentimenti e caduta progressiva nell’incubo. Il mistero del passato, anche per chi non avesse visto l’originale, non risulta poi molto misterioso e nell’ultima mezzora del film si snoda tra pseudo rivelazioni e flashback perversi e disturbanti, fatti di incesti, omicidi e suicidi senza possibilità di redenzione. ,Sì perché se il film fa riferimento in molti punti all’immaginario cristiano (croce e bibbia nella prigione, due protagonisti che si chiamano Joe(seph) e Marie) e al romanzo ottocentesco (l’alias di Joe nella prigione, in omaggio al Conte di Montecristo, è ovviamente Edmond Dantes), alla fine ci si ritrova in un territorio più vicino alla tragedia greca e alla sua ineluttabile e crudele necessità. In questo sfondo morale sempre più confuso e perturbante, l’espiazione più che una strada per la salvezza diventa una forma di felicità in se stessa, e qualunque sentimento, amore, affetto familiare, amicizia, si trasforma in una parodia insopportabile del suo originale. Il film, una sorta di moral play senza una vera morale da offrire, si muove tra l’astrazione della parabola, l’icasticità del fumetto, la violenza più o meno granguignolesca alla Tarantino, il melodramma estetizzante, in un mix scoraggiante anche per i pochi spettatori, magari incuriositi dall’affrontare questo tour de force un po’ fine a se stesso.
Laura Cotta Ramosino