Si chiama Niko, è molto giovane ma non così tanto da non dover crescere. Invece, dalla prima inquadratura con la ragazza, dopo una notte d’amore da cui lui scappa frettolosamente, lo inquadriamo come un uomo – giovane, va bene, ma non ragazzino – che non sa prendersi responsabilità. E così lei lo lascia. E poi tutte le sfortune,dal suo punto di vista: a cominciare da un maledetto caffè che non riesce a prendere, per un motivo o per l’altro; gli incontri tutti di segno negativo, dallo psicologo che deve valutare se ridargli la patente dopo aver guidato con una percentuale di alcol superiore di pochissimo al consentito (ovviamente no…) al neo vicino di casa – Niko ha appena traslocato – in crisi coniugale, dal padre che gli ha bloccato il conto corrente su cui gli mandava i soldi per mantenerlo perché ha scoperto che ha lasciato l’università (e mica lavora…) alla sua ex che recita a teatro e che sembra smaniosa di riaccendere la vecchia fiamma, senza parlare di quel regista insopportabile e dei bulli di strada che li importunano… Tutto congiura contro di lui, a cominciare da se stesso, così indeciso e confuso su tutto.
Inizia con una musica e con immagini in un bianco e nero molto suggestivo che fanno a pensare a un capolavoro come Manhattan, con Berlino al posto della new york woodyalleniana. Poi l’opera prima di Jan Ole Gerster sembra guardare ad altri modelli, dalla nouvelle vague francese ai film off del cinema americano anni 80 (Jim Jarmusch, per dire un nome) e tanti altri film simili. Non privo di grazia e con la capacità di farci subito simpatizzare con un giovane così incerto e inquieto, in balia di se stesso e degli altri ma senza antipatici autocompiacimenti: rivelatrice è una frase di Niko “Ti è mai capitato di pensare che tutti ti sembrano strani e invece poi ti accorgi che il problema lo hai tu?”. Le sue peregrinazioni sentimentali ed esistenziali sembrano girare a vuoto, fino a un incontro sorprendente con un anziano ubriacone, con un passato tragico alle spalle (un passato che è poi quello di un’intera nazione): un uomo che, pure lui, non capisce le persone; un uomo lontanissimo da lui, in cui forse rispecchiarsi. E con cui tirar fuori un minimo di umanità, accompagnandolo nel suo passo d’addio. Il monologo chiude con classe la storia di Niko, in sottofinale, ma rischia di essere un facile escamotage in un film troppo fragile per reggere la sterzata metaforica su una Germania ancora gravata dal suo passato tragico. Rimane per Oh, Boy (titolo di una canzone della colonna sonora) l’impressione ricavata dalla prova del protagonista Tom Schilling, dalla buona qualità artistica della regia e dalle ottime scelte “pittoriche” – davvero il bianco e nero fa ancora miracoli… – accompagnate da una fragilità di storia che poteva bastare negli anni 70 o 80; oggi non più. Un film interessante, anche gradevole, ma per palati più che fini, per addetti ai lavori o spettatori da festival; ma con troppo poco mordente per allargare la sua platea.
Antonio Autieri