Ritrovare se stessi in famiglia: questa l’idea, confusamente, del confusissimo musicista 35enne protaagonista di questa storia. Che quando arriva a Rimini viene guardato da parenti e amici come quello “strano”, che vive a Roma e si diverte a non lavorare ma a suonare (anche se per lui è un lavoro, ovviamente). Ma chi gli sta intorno non è da meno, a dir la verità. Il fratello Alberto, il maggiore, ha preso dal padre anziano la responsabilità dell’azienda di famiglia (di ciliegie sotto spirito) che non sa gestire (e va malissimo); e in più soffre per la separazione dalla moglie e dai figli. La sorella Michela ha lasciato l’università per lavorare con i delfini in un parco acquatico (e si inizia a pensare, a torto, che abbia strani gusti sessuali…). Il padre, reduce da un infarto, gioca a golf e non si accorge che la sua azienda sta andando a rotoli. La mamma segue seminari di “tecniche sciamaniche” (e nasconde un segreto)… Senza contare amici esauriti aspiranti suicidi, politici in carriera, chiacchieroni e superficiali… Per Stefano il ritorno a casa non è sereno, guarda con sufficienza e ironia le magagne familiari. A un certo punto prende anche in mano la situazione, dopo tanto osservare, e inizia a cercare una soluzione per l’azienda (lui che “non ha mai lavorato”) mentre il fratello sgobbone si innamora di una squillo dal cuore sensibile.
Non pensarci, una delle sorprese dell’ultimo festival di Venezia, viene raccontato dalla critica come commedia esilarante e dal ritmo serrato: potenza dei fraintendimenti delle visioni festivaliere, dove se tra un film asiatico e l’altro – mediamente noiosi, anche quando sono belli – arriva una commedia che fa sorridere (vera boccata d’ossigeno, salutare per l’umore) la si scambia per una sarabanda di gag. In realtà, il film di Gianni Zanasi è una storia malinconica e anche un po’ triste, sia pure con situazioni umoristiche che strappano spesso un sorriso o anche una risata, ma a volte a denti stretti. Un umorismo surreale e anche tenero (i display che segnalano le velocità delle auto che passano, e che Stefano osserva perplesso, diventano protagonisti di scene molto divertenti) che lascia però spesso spazio ad annotazioni amare e umanissime: sulle frustrazioni irrisolte, sull’incrinarsi di certi rapporti in famiglia, sulle cose non dette che creano una distanza tra le persone, sulle ombre destinate a condizionare la vita. Però è anche bello vedere questi personaggi, fragili, spesso tristi e a volte goffi, spesso nervosi o fuori posto, che comunque si vogliono bene. Anche se la conclusione di Stefano, scoperta l’ennesima cosa che non vorrebbe sapere (il segreto è d’obbligo): «Mamma, ma non stavamo meglio quando ci dicevamo le bugie?».
I pregi di questo bel film sono da notare anche e soprattutto in un cast di attori davvero ispirati: da Valerio Mastandrea che trova la sua parte che lo ha finora meglio valorizzato a Giuseppe Battiston che con una battuta o un’espressione improvvisa salva sempre i suoi personaggi dai cliché a cui le sceneggiature lo condannerebbero (fa sempre il separato, lo sfortunato in amore, ed è almeno il terzo film in cui si innamora di una prostituta…); da Anita Caprioli, sempre convincente, ai “genitori” Teco Celio (ottimo caratterista) e Gisella Burinato. Qualche pecca riserva invece la sceneggiatura, che non è mai stata il punto forte di Zanasi, più attento al lavoro con gli attori che lascia spesso anche liberi di improvvisare. Pur se Non pensarci è il suo film più maturo e solidamente costruito, in alcuni momenti le situazioni si affastellano l’un l’altro, talvolta prevedibili (il suicidio annunciato e “poetico” di Matrix) e si perde di vista il “cuore” del film. Anche volontariamente: perché la rarefazione della storia rende bene lo spaesamento di Stefano e di chi gli sta intorno. Ma a lungo andare, c’è il rischio di lasciare spaesati, nel finale a metà tra il riscoprire la sua strada e la resa a una situazione in cui può fare poco, anche gli spettatori.
Antonio Autieri