Francesca (Emmanuelle Devos), cinquant’anni, è l’unica figlia di Manfredi (Giulio Brogi), una famoso architetto ormai vedovo che abita a Torino e che lei va a trovare solo in rare occasioni. Francesca vive a Parigi con una figlia adolescente e il marito Benoît (Hippolyte Girardot), un finanziere sulla sessantina. Dopo un infortunio domestico, Manfredi chiede alla figlia di fare le sue veci nel progetto di una villa sul lago per una coppia di innamorati. Quando Francesca si ritrova a collaborare con il “delfino” del padre, Massimo (Fabrizio Gifuni), tra i due inizia presto a nascere oltre ad una sintonia professionale un sentimento ben più intenso…
Paolo Franchi aveva esordito nel 2004 con un film interessante, La spettatrice, per poi cancellare le promesse del suo esordio con i molto discutibili Nessuna qualità agli eroi (2007) ed E la chiamano estate (2012). Franchi come regista ha un discreto talento visivo, ma pecca di intellettualismo, di disinteresse nel raccontare una storia, ovvero di disinteresse nell’instaurare un dialogo con il pubblico in sala. Dove non ho mai abitato si propone come un ritorno alla narrazione, un ritorno ai sentimenti, abbandonando le deficienze proto-sperimentali dei suoi due film precedenti. La materia narrativa è quella di una storia sentimentale da melodramma o più che altro da Soap-opera televisiva, ed è l’aspetto più interessante del film; infatti quando si tratta di coinvolgere ed emozionare il film a tratti funziona anche. Il cast di grandi volti internazionali è deludente, la Devos recita con un insopportabile accento francese come se non avesse compreso nemmeno una delle (non troppo brillanti) battute che deve pronunciare e la sua controparte maschile, Fabrizio Gifuni, recita con la piattezza di una fiction televisiva; entrambi poi non sono aiutati dalla mediocre presa audio, tallone d’Achille del cinema nostrano. Sul lato tecnico all’attivo ci sono però le sempre belle musiche di Pino Donaggio, enfatiche e ridondanti che bene assecondano la storia da mercato dei sentimenti, e la fotografia interessante di Fabio Cianchetti (collaboratore di Bertolucci e Benigni).
Il film, comunque interessante, a tratti sa anche coinvolgere: il problema sta nel fatto che il regista non asseconda totalmente la vena melodrammatica della sua storia, ostinandosi a resistere dietro una barriera di pretese intellettualistiche. Franchi cita come modelli Cechov e Henry James, ma il paragone architettura-amore deriva da Noi due sconosciuti (di Richard Quine), un classico strappalacrime degli anni 60. È da apprezzare il tentativo di ritorno a una classicità, ma va denunciata una non sincerità nell’operazione.
Riccardo Copreni