Vittorio e Cesare sono amici, quasi fratelli. Nella Ostia di metà anni 90 vivono, insieme a un gruppo di amici sfaccendati come loro, perennemente al bar e persi tra eccessi di ogni tipo (tanto alcool e ovviamente la droga, ma solo cocaina e pastiglie sintetiche; l’eroina è da perdenti), spaccio e piccoli colpi per rimediare i soldi per andare avanti. Nel gruppo c’è anche una ragazza, Viviana, marginale come loro, innamorata ma non ricambiata da Vittorio. Le donne, infatti, hanno spazio marginale in un universo cameratesco e incapace di prevedere una qualsiasi prospettiva di una vita diversa. Immersi in uno squallore da cui non vogliono tirarsi fuori, apparentemente inconsapevoli del vivere. Cercare un lavoro? Manco a parlarne. In realtà Cesare, costantemente allucinato e ingovernabile, in casa sembra trasformarsi: mette via i soldi per le cure a un’adorata nipotina malata di Aids, malattia presa dalla madre – sorella di Cesare – che l’ha lasciata orfana, affidata solo alle cure di Cesare e di sua madre, nonna dolente. Ma proprio quando una bravata a mano armata rischia di finire male, per Vittorio si apre una possibilità con Linda, ragazza madre con figlio adolescente. Con lei vorrebbe davvero cambiar strada, inizia persino a lavorare in un cantiere tra le ironie degli amici. Cesare un po’ si sente estromesso, un po’ vorrebbe provarci anche lui: e se sul lavoro sembra incapace di una minima affidabilità, proprio con Viviana sembra desiderare una casa (per quanto quella che trovano abbandonata sia fatiscente), una famiglia, dei figli… Ma per i due amici le tentazioni di scorciatoie sono continue, e pericolose.
Raccontare il terzo e ultimo film di Claudio Caligari, morto proprio dopo aver concluso il montaggio finale per un tumore, non rende l’idea di quel che ci si trova sullo schermo. Perché di storie di cadute e possibile riscatto, di droga e amori possibili il cinema ne ha raccontate tante. Ma spesso con occhio “esterno”. Caligari, regista noto solo agli addetti ai lavori, questo argomento e questa umanità la conosceva bene, e la rappresentava sempre da un punto di osservazione ravvicinato. Fin dal documentario-inchiesta per la Rai “Droga che fare” che a metà anni 70 squarciò un velo sul drammatico problema, poi con il film d’esordio Amore tossico (1983), girato da attori che erano in realtà veri tossicodipendenti, con un realismo impossibile da riprodurre altrimenti. Passarono ben 15 anni per il suo film successivo, il noir L’odore della notte con un ottimo Valerio Mastandrea, che mixava il tema della droga con quello classico della polizia corrotta ma con uno stile allucinato e convincente. E negli anni successi tanti progetti si arenarono. È stato proprio l’amico Mastandrea a impegnarsi forsennatamente per farlo tornare al lavoro, perfino scrivendo una lettera pubblica a Martin Scorsese per interessarsi del caso. Il motivo lo si è capito quando è morto Caligari: la malattia procedeva, di tempo ce ne era poco. Per permettere al regista di portare a termine la sua ultima impresa, Mastandrea si è improvvisato produttore, allestendo un’alleanza di varie case cinematografiche che hanno reso possibile girare il film e completarlo. Tutto ciò rende forse ben disposti, almeno nell’ambiente cinematografico, verso un’opera non priva di limiti – soprattutto di sceneggiatura – e a tratti respingente, a cominciare da una parlata romanesca che, soprattutto al nord, troverà sicuramente chi non la sopporterà. Ma che non può non risultare sincera e frutto di una vera urgenza personale, come poche volte allo stesso modo nel nostro cinema.
Di Non essere cattivo – titolo che sembra dissonante e invece rappresenta un po’ il “segreto” di Cesare, che si scioglie con la sua nipotina malata: quella è la scritta che penzola da un orsacchiotto che lui le ha regalato – rimangono impresse tante cose. Innanzi tutto la prova degli interpreti principali (attorniati da comprimari azzeccatissimi): Luca Marinelli, eccezionale, è irriconoscibile rispetto ai ruoli che lo hanno fatto diventare uno degli attori più interessanti del cinema italiano (il ragazzo geniale e disturbato di La solitudine dei numeri primi, l’innamorato gentile e colto di Tutti i santi giorni, il giovane suicida in La grande bellezza), Silvia D’Amico continua a crescere dopo le prove apprezzabili in Il rosso e il blu e Fino a qui tutto bene mentre Alessandro Borghi, per la prima volta in un ruolo importante, è una vera rivelazione. L’aspetto visivo è ben curato e restituisce tutto lo squallore di ambienti e luoghi reali, ancorché collocati temporalmente nel 1995 (ma la Ostia di oggi non è diversa). Regia e montaggio, poi, restituiscono l’adrenalina e l’allucinazione di vite frenetiche al massimo che sembrano desiderare solo l’autodistruzione, sapendo però prendersi le giuste pause che smorzano con momenti di gustosa comicità o di spiazzante tenerezza, anche tra due amici che si vogliono davvero bene ma non sanno aiutarsi. Soprattutto, Caligari ha saputo raccontare queste vite accanto a loro, mai distante. Come un fratello maggiore non complice delle loro “gesta”, ma che vuol vivere da vicino le loro esistenze.

Antonio Autieri