La derivazione è la cosa più originale del nuovo film di Giovanni Veronesi: l’omonima trasmissione radiofonica condotta dallo stesso regista, che raccoglie esperienze di giovani che sono scappati dal nostro Paese, dove non vedono prospettive. Che trovano regolarmente altrove. E in effetti i video, veri, che aprono il film (e poi ce ne saranno nei titoli di coda) fanno interrogare parecchio: l’Italia non sa proprio valorizzare i talenti di giovani che portano competenze, entusiasmo e brillantezza in altre nazioni, dove oltre tutto si vive spesso anche meglio (ma non era il nostro punto di forza, lo “star bene”?)
Poi si dipana la storia di Sandro e Luciano, due giovani che si conoscono in una trattoria di Roma dove fanno i camerieri nella speranza di poter fare di meglio più avanti. Caratteri opposti ed estrazione molto diversa (il primo è figlio di un edicolante che si arrangia vendendo frutta abusivamente, perché i giornali non si vendono più; il secondo che nasconde di essere di famiglia borghese e “illuminata”), i due decidono di mollare tutto e partire per Cuba, dove una conoscenza di Luciano creerebbe le condizioni per un grande affare: aprire un bar/ristorante su una spiaggia stupenda con rarissima, e agognata, concessione wi-fi (ma serve un socio cubano al 51%, anche il primo che capita…). Con il sogno del posto ideale in cui campare senza frustrazioni e assilli, i due si trovano in una realtà tutta diversa, a partire dall’ospitalità tutt’altro che “comfort” presso una numerosa famiglia cubana che ha adottato una giovane italiana un po’ “fulminata” dopo un incidente stradale – e relativo aneurisma – in cui aveva perso il fidanzato. I tre legheranno, a loro modo, ma l’idillio per il “nuovo mondo” lascerà il posto a delusioni, truffe e tentazioni di far soldi in altri modi.
Veronesi, ancora una volta, ripropone il suo tentativo di emulare la commedia dei “padri” (gli stracitati Risi, Scola e soprattutto il conterraneo, toscanissimo Monicelli), in cui si parte da atmosfere divertenti ma si affonda ben presto in territori seri. Peccato che raramente il piatto gli sia venuto bene, tra difficoltà a dosar bene i vari elementi, concessione a elementi talvolta sgradevoli (le solite grevità e allusioni, che infatti non mancano; qui anche qualche momento molto violento con i combattimenti clandestini di boxe) e soprattutto a una scarsa sensibilità nel rappresentare i personaggi, spesso unidimensionali e quasi mai davvero con quella profondità che la commedia di classe richiede. Prevale lo slogan, la frase fatta, il luogo comune più che il dialogo o il carattere ben scritto; e le azioni sono più spesso reazioni, istintive e anche autodistruttive. Pur volendo bene – e si vede – ai suoi protagonisti, che anzi assolve spesso da tutto. Perché tutto in fondo è uguale, e non si sbaglia mai; al massimo si è bersaglio di un destino cinico e baro. Anche la qualità complessiva non è granché: i tre giovani interpreti, pur bravini, sono capaci di fare meglio (a partire da Filippo Scicchitano, lanciato anni fa da Scialla!), e vengono surclassati dai navigati Sergio Rubini e Nino Frassica – fantastico il suo personaggio di evasore fiscale scappato dall’Italia, che rimpiange, e che ha aperto un ristorante italiano – in poche scene giganteggiano al confronto. La voce fuori campo è fastidiosa, le musiche dei Negramaro spesso troppo enfatiche. Ma è la sceneggiatura, scritta da Veronesi con Ilaria Macchia e Andrea Paolo Massara, che dà il suo peggio; con alcuni momenti davvero imbarazzanti (su tutti l’elogio funebre del nonnino centenario), e frasi o troppo “scolpite” («siamo zavorra per chi non ci vuole», «i genitori non sono quelli che ti concepiscono ma quelli che tu concepisci che sono i tuoi genitori») o troppo “buttate lì”. Come l’orribile «ma ti senti quando parli?».
Quello che infastidisce di più, però, è strumentalizzare un tema serio, che meritava ben altro svolgimento (e che era stato lucidamente inquadrato come eclatante nella situazione italiana attuale), con la solita storiella di ragazzi insicuri e pasticcioni (anche se poi a uno la fortuna gli sorriderà), che hanno una forte precarietà affettiva. E desideri confusi che non portano da nessuna parte. Peccato, perché in ogni film Veronesi azzecca almeno un paio di momenti sinceri e toccanti: qui, per esempio, quando Luciano racconta di quando la sua ragazza aveva abortito e tutti, a partire dai suoi genitori, «intellettuali giusti» («tutti erano stati d’accordo, tutto era stato perfetto» confessa con la voce incrinata dal dolore). Per un attimo, anche quando Luciano e Nora guardano le stelle di notte, si spera che si sia almeno di fronte a un nuovo Che ne sarà di noi? (uno dei suoi film migliori). E invece, alla fine, i video all’inizio e sui titoli di coda del film rimangono paradossalmente la parte migliore: meriterebbero un vero film, magari un documentario, che racconti i motivi e le fortune di questi ragazzi che scappano dall’Italia.
Antonio Autieri