Marco Montes, vice allenatore di una squadra di basket si fa trascinare dai nervi, prima con il suo “superiore”, poi con alcuni agenti di polizia che lo fermano in stato di ebbrezza. Condannato a 90 giorni di carcere, li può commutare in lavori socialmente utili. Viene così assegnato a un’associazione che utilizza lo sport con persone afflitte da handicap, e considerate le sue caratteristiche gli viene chiesto di allenare un gruppo di disabili mentali; per i quali il basket sembra molto lontano dalle loro attitudini… Marco inizialmente non ne vuole sapere, ma poi la sfida di farli diventare una vera squadra, e perfino di partecipare a un torneo, lo intriga. E mentre la sua vita sentimentale va a ad alti e bassi (la fidanzata, al contrario di lui, vuole un figlio), con quei ragazzoni con un forte deficit intellettivo deve fare praticamente da padre, oltre che da allenatore… Ma anche lui, da loro, avrà molto da imparare.

In questa commedia semplice ma molto divertente, che sembra seguire tutti i prevedibili canoni del genere e al tempo stesso sorprendere con momenti imprevedibili di tenerezza, la cosa più incredibile è che i giocatori della squadra di basket sono interpretati da veri disabili (che spesso hanno lo stesso nome del personaggio, come l’ineffabile Jesús Lago Solís il cui nome fa partire una gag irresistibile…), con inserimento di alcuni momenti di improvvisazione pur all’interno di una sceneggiatura che sembra molto solida. Mentre il protagonista Marco è interpretato invece dall’esperto attore Javier Gutiérrez, qui però lontano dai ruoli da duro se non da “cattivo” in cui spesso è impegnato (per esempio, era il poliziotto con parecchi scheletri nell’armadio del notevole noir La isla minima). L’abilità del regista Javier Fesser non è solo di direzione degli attori, ma anche di non minimizzare difficoltà e aspetti “specifici” dei personaggi, senza perdere di vista l’obiettivo di confezionare una commedia popolare e divertente. E Non ci resta che vincere (in originale Campeones) infatti in Spagna è stato un enorme successo, dando vita anche a un documentario sui reali personaggi (Ni distintos, ni diferentes: Campeones¸ ricorda un po’ Up & Down di Paolo Ruffini, che sta girando nelle sale italiane) e guadagnandosi perfino la segnalazione iberica alla corsa all’Oscar per il miglior film straniero; e chissà con quale smacco di autori importanti o alfieri del cinema impegnato. Ma com’è noto, la commedia – se ben fatta e non triviale – ha spesso la capacità di entrare in maggior sintonia con il pubblico, riuscendo a far passare temi come la lotta al pregiudizio o l’accettazione della propria condizione (ma anche il coraggio di fare certe scelte, con l’impegno più serio con la propria donna da parte del protagonista).

Qui peraltro il pregiudizio non è solo sulla malattia, anche perché in fondo quei disabili – per quanto ogni tanto gli facciano saltare i nervi – a Marco risulteranno in fretta simpatici, e si conquisteranno uno spazio nel suo cuore. Ben più difficile sarà accettare il loro modo di guardare alla vita, che nel bel finale lo costringerà a dare un giudizio di valore su tutta l’esperienza passata insieme. Una curiosità: a un certo punto si cita la squadra di basket spagnola delle Paralimpiadi 2000: un caso che fece scalpore perché in realtà si trattava di una truffa, essendo i giocatori tutti “normali” (uscirà nei prossimi mesi un film francese ispirato a questa storia). Solo due di quella squadra erano davvero disabili: e qui, nella finzione, si immagina che uno di questi sia Roman, il più forte dell’improvvisato team che viene affidato a Marco. E che invece è l’unico che a lungo – ancora traumatizzato dallo scandalo, che gli portò via la medaglia d’oro vinta alle Paralimpiadi – si rifiuterà di scendere in campo.

Luigi De Giorgio