Nina, giovane donna con una figlia tirata su da sola, si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia. Ha trovato lavoro in una residenza per anziani facoltosi gestita da un ente religioso, un posto immerso nella natura e dove tutti sono gentili. Forse un po’ troppo formali e talvolta invadenti sulla vita privata o le scelte personali. Ma Nina non se ne cura troppo. E se il compagno, che abita a Milano e la vede giusto qualche sera a settimana, vorrebbe che lei e la figlia andassero a vivere da lui, lei si ambienta bene nella casa di riposo, facendo anche amicizia con un’eccentrica e anziana attrice. Ma il mondo le cade addosso, quando l’amministratore delegato della società Marco Maria Torri la invita nel suo ufficio nel tardo pomeriggio, dopo che ha finito di lavorare. E non per darle consigli o per uno scambio di vedute sulla sua esperienza. Ma per metterle le mani addosso: un dazio da pagare molto frequente per le dipendenti della struttura.

Marco Tullio Giordana mancava da un po’ dagli schermi cinematografici: il precedente film, Romanzo di una strage, era del 2012; e sei anni oggi sono un’eternità (nel frattempo, ha diretto la fiction televisiva Lea). Partendo da un soggetto di Cristiana Mainardi, che ha anche scritto la sceneggiatura insieme al regista e a Vincenzo Carpineta, Giordana confeziona una storia di reazione ai soprusi e alle molestie, in difesa della donna e della sua dignità che sulla carta poteva sembrare in linea con la caratura da autore impegnato su temi sociali (mai però prevaricanti l’aspetto qualitativo dell’opera). Nel ruolo della protagonista Cristiana Capotondi porta la sua freschezza, che rende credibile il suo personaggio, anche se – come gli altri interpreti – si appoggia più al mestiere che a una sceneggiatura ricca solo di soluzioni facili e prevedibili. Gli “orchi” della storia (o meglio, l’orco e chi in un modo o nell’altro lo copre) sono figure molto stereotipate (sono cattolici, hanno famiglia, mandano i dipendenti a messa ma poi hanno amanti e relazioni segrete), alcune battute sembrano prese dalla cronaca anche recentissima (come dice il personaggio, più simpatico di altri, di Adriana Asti: «Molestie? Un tempo le chiamavano complimenti»); entrambi, personaggi e dialoghi, non “lavorati” abbastanza attraverso il filtro di una scrittura matura. A cominciare dallo stesso Marco Maria Torri, interpretato con la consueta bravura da Valerio Binasco ma un po’ con il pilota automatico; così pure il presidente “religioso” della struttura, don Roberto Ferrari (un Bebo Storti incisivo). Il film si fa seguire, soprattutto grazie agli interpreti citati (cui è da aggiungere Adriana Asti, per quanto in un ruolo solo apparentemente originale), ma si fa apprezzare solo da chi ama schierarsi e indignarsi a comando: difficile non sollevare obiezioni di fronte alla descrizione di sindacalisti troppo arrendevoli, di colleghe compattamente schierate contro Nina e soprattutto alla chiusura di un’indagine da parte di magistrati compiacenti senza neanche interrogare chi ha denunciato un reato…

La mano di Giordana si vede poco, e invano si attende da lui un guizzo o una scatto d’ali. Sarà pure un luogo comune, ma vengono in mente tanti tv movie piatti e insapori (con tanto di stacchi bruschi tra una scena e l’altra), magari con dibattito da talk show annesso. Dall’autore di film come I cento passi, La meglio gioventù e il sottovalutato Quando sei nato non puoi più nasconderti, francamente, ci aspettiamo molto di più.

Antonio Autieri