Nella stazione di Parigi, come in tante altre, c’è un pianoforte a disposizione di chi si vuole fermare a suonare: un’oasi di quiete nella frenesia di chi corre di continuo. Ma quello che sente Pierre, musicista e professore al Conservatorio, non è il solito appassionato di passaggio: il ragazzo che sente suonare un pezzo di Bach è tanto giovane quando pieno di talento. Nessuno ci fa caso, solo Pierre. E però un attimo dopo la polizia arriva e insegue il ragazzo, che sfugge alla cattura. Non a Pierre, che lo va a cercare varie volte in stazione finché non lo rivede, e gli propone di frequentare corsi regolari per affinare il talento. Il giovane Mathieu si nega, ma quando verrà arrestato durante un furto in un appartamento, con due compari che scappano, sarà Pierre a tirarlo fuori dalla prigione: la pena può essere tramutata in lavori socialmente utili, ovvero le pulizie al Conservatorio. Ma è evidente che da lì a mettere alla prova il talento di Mathieu sarà un attimo: Pierre lo affida alle cure della severissima “Contessa”, si scontra con il preside per iscriverlo a un concorso nazionale in cui la scuola crede molto, si scontra a ripetizione con lui. Riuscirà a domare il talento del ragazzo – che nel frattempo vede rifarsi vivi i vecchi e pericolosi “amici” e si innamora di una studentessa di musica dalla vita molto diversa dalla sua – che fa di tutto per perdersi?

Di film con gli elementi proposti da Nelle tue mani ne abbiamo visti tutti a iosa: il ragazzo emarginato che ha un dono (emerso grazie a un anziano maestro, cui ha fatto la promessa di non abbandonare la musica) ma non sa ancora farne tesoro, il professore che si gioca la reputazione perché crede in lui, l’insegnante durissima ma che ovviamente si aprirà in modo sorprendente (si fa per dire), l’amore tra ragazzi di diverse classi sociali (anche questo scontatissimo: tra i due è difficile pensare che il fin troppo “pulitino” Mathieu sia il ragazzo “perduto”, rispetto alla compagna di colore; ma si è evidentemente voluto ribaltare lo stereotipo)… Tutto è prevedibile e “telefonato” nel film di Ludovic Bernard, in cui anche due ottimi attori come Lambert Wilson (doppiato con una voce diversissima dalla sua, con un effetto davvero fastidioso rispetto ad altri film) e Kristin Scott Thomas – il personaggio “disegnato” meglio, anche se non originale – non riescono a comunicare quasi mai sentimenti reali e sinceri. Tutto troppo scritto, senza scarti, imprevisti, sussulti. Raramente abbiamo visto una tale infilata di stereotipi e cliché in un solo film, oltre tutto di ottima produzione e confezione (i mezzi non mancavano). Il protagonista Jules Benchetrit, figlio e nipote d’arte (il nonno è il grande Jean-Louis Trintignant, il padre è l’attore Samuel Benchetrit, la madre la povera Marie Trintignant uccisa da un suo compagno), si impegna e non è malaccio. È la storia che fa acqua da tutte le parti, fin dai brevi flashback di Mathieu bambino con l’anziano maestro (in pochi secondi ha già intuito il suo talento?). La passione del ragazzo per il pianoforte, così fisica che deve toccarne uno appena lo vede, non si capisce come nasca, e non è mai credibile questo incredibile talento (nella postura, negli atteggiamenti, nel coinvolgimento mentre suona) che addirittura lo fa suonare quasi a orecchio, mentre fatica a leggere gli spartiti…

La cosa peggiore è però la parte finale, con un accumulo di incidenti, sfuriate e colpi di scena da romanzo d’appendice, il peggiore dei quali è l’inserimento della figura della moglie di Pierre con cui la crisi coniugale – per “colpa” di un doloroso segreto – è pronta a esplodere: un personaggio mal scritto, cui sono assegnate le scene peggiori prima con il marito, poi quando si metterà in mezzo per allontanare Mathieu da Pierre (che glia aveva pure prestato un loro appartamento per non fare il pendolare), facendo naufragare il matrimonio a colpi di battute che hanno una tempistica così infelice e una tale enfasi da sfiorare il ridicolo. E poi ci si infila pure una tendinite e un incidente al fratellino, entrambi alla vigilia del concerto… Peccato: amiamo le storie di riscatto e redenzione. Ma devono essere minimamente credibili, altrimenti diventano uno sfoggio di insopportabile e vuota retorica. Come tante, troppe scene di questo film che alla fine non ci lascia nulla. Perché dell’emozione di cui la “Contessa” parla di continuo a Mathieu, nel film neanche l’ombra.

Luigi De Giorgio