Inizio sicuramente a effetto: una performance teatrale antica e “urlata” (la cosiddetta “figliata dei femminielli”, rito antico sulla fecondità in cui un gruppo di uomini mette in scena un finto parto), considerazioni sul mistero dell’amore tra uomo e donna, concluse dalla frase: «La gente non sopporta troppa verità». Sarà forse per questo che, subito dopo, l’incontro/colpo di fulmine tra l’introversa Adriana e Andrea, un ragazzo misterioso e quasi arrogante nella sua sicurezza, porta a una notte di passione di crudo realismo (con una lunga scena di sesso tanto focosa quanto un filo ridicola). La mattina dopo i due progettano di rivedersi subito, ma l’uomo non si presenta all’appuntamento. Adriana, che lavora in ospedale e di mestiere esegue autopsie, lo ritrova cadavere all’obitorio, straziato e riconoscibile solo da un tatuaggio. Eppure continua a vederlo: è ancora vivo? È il suo fantasma? Attorno a lei girano attorno a tanti personaggi: amici, persone ambigue, figure – come la zia – che le ricordano un passato tragico. E pure un poliziotto che forse si è innamorato di lei.

Napoli velata, nuovo film di Ferzan Ozpetek, a pochi mesi dal debolissimo Rosso Istanbul, è un giallo molto sui generis, ambientato in una Napoli epicentro di magie e superstizioni paganeggianti, amori e odi (fino all’invettiva parecchio retorica di Anna Bonaiuto). C’è molta carne al fuoco, tanti personaggi (e attori noti: ma tra tutti si distingue solo Peppe Barra, parecchio sprecati vari interpreti tra cui una grande attrice come Lina Sastri), colpi di scena e ambienti attraenti o inquietanti. Ne si può rimanere affascinati o intontiti, oppure vagamente irritati per le tante false piste e le numerose “citazioni” (in particolare da Hitchcock al Martone de L’amore molesto) che sfociano nel modello da cui non ci si riesce a distanziare: alcune soluzioni, che vorrebbero stupire, lasciano perplessi in quanto utilizzate fin troppo spesso (ma evitiamo di dare dettagli per non rovinare la sorpresa); flashback rivelatori compresi. Ne risulta un giallo-melò come sempre molto ambizioso – e pieno di simboli da decifrare – ma, come altrettanto spesso avviene al regista turco ormai italianizzato, anche al di sotto delle promesse. La passione iniziale, al netto di una chimica tra la pur brava Giovanna Mezzogiorno e l’emergente Alessandro Borghi che rimane solo sulla carta, lascia il passo a una città appunto magica e superstiziosa – con tanto di santona che sembra uscire da un film di parodia – che dovrebbe almeno ribollire di umori, e che invece ha il suo riflesso in una curiosa freddezza di stili e ambienti, spesso bui, come gli interni (case, musei, negozi) pieni di mobili, oggetti da antiquario, arredi d’arte e così via. L’occhio degli esteti ne è a tratti appagato, anche l’orecchio per una colonna sonora inconsueta, ma l’aggancio a una narrazione più che farraginosa richiede una notevole forza di volontà.

Il giallo non si addice agli autori, questo si sa. Ma forse Ozpetek, ottimo regista per stile e anche dalla buona direzione degli attori, dovrebbe curare maggiormente le proprie sceneggiature (e magari scegliersi cosceneggiatori più rigorosi e “aggiornati”). Perché è vero che le storie indefinite e sospese possono intrigare, ma fino a un certo punto. A tirar troppo la corda, e continuando a sfornare film eleganti ma inerti come Napoli velata (e a tratti noiosi), il rischio è disperdere il capitale di stima guadagnatosi con i primi film. E suggerire il sospetto che, comunque, il proprio percorso abbia già dato le sue prove più interessanti.

Antonio Autieri