Firmato dal pluripremiato autore tedesco di origini turche Fatih Akin (che aveva già vinto l’Orso d’oro nel 2004 con La sposa turca) Il mostro di St. Pauli – presentato in concorso a Berlino 2019 – è un horror tratto da un libro che rievoca la vicenda (vera) di un serial killer nell’Amburgo degli anni Settanta. Il prolifico regista tedesco di origine turca, che in passato ha esplorato sia il dramma che la commedia, qui imbocca la strada del genere, rivisitandolo in una chiave quasi simbolica e sociologica ma senza farsi mancare scene di uno stile grandguignolesco volutamente provocatorio (la pellicola si apre con una scena di smembramento che sembra non finire mai).

Nel quartiere malfamato di St. Pauli ad Amburgo, Fritz Honka (Jonas Drassler) uccide e smembra per lo più donne derelitte, ubriacone e prostitute che frequentano come lui il bar Der Goldene Handschue (ovvero “Il guanto d’oro” e che è anche il titolo originale del film), nascondendone i corpi nell’intercapedine di casa senza che nessuno ci faccia caso, se non gli immigrati greci del piano di sotto disturbati dall’odore.

Del resto l’impressione è che persone come Honka e le sue vittime semplicemente conducano una vita così miserabile da passare sotto i radar della “gente normale” e delle autorità. La “fauna” del bar comprende veri e propri “rottami” in cerca solo di qualcuno che gli offra qualcosa da bere, come pure personaggi più originali (compreso un ex SS dallo strano senso dell’umorismo), ciascuno con un proprio soprannome.
Certo, a St. Pauli ci vengono anche i ragazzini borghesi, richiamati dal fascino del proibito e dallo squallore del luogo, che finisce per diventare qualcosa di involontariamente di moda. Sarebbe facile fare dell’ironia sulla curiosità borghese per i miserabili e tuttavia la sensazione è che i due adolescenti in gita si muovano con la mancanza di consapevolezza di un visitatore di uno zoo che non sappia che le gabbie sono in realtà aperte. Il pericolo è molto più vicino di quello che pensano, forse anche la morte cammina pochi passi dietro di loro.

Akin non risparmia nulla allo spettatore, indugiando sullo squallore del contesto (per altro perfettamente documentato, come mostrano le foto dei luoghi reali che scorrono durante i titoli di coda) e sulla mostruosità quasi “ordinaria” della azioni di Honka, ma anche sulle vite miserabili delle sue vittime. Un orrore che fa il paio con l’atmosfera dell’epoca, che senza dubbio è una delle ragioni che ha permesso ad Honka, di sicuro non un serial killer raffinato e intelligente, di agire indisturbato per anni.

Eppure, a dispetto di questa impostazione, si intuisce, nello sguardo di Akin, uno spiraglio di pietà, forse anche solo la speranza della possibilità di un cambiamento, che Honka sfiora prima di ricadere nella sua maledizione. Fin troppo raffinato per l’usuale pubblico del genere horror, Il mostro di St. Pauli è invece un boccone non facile da digerire per il pubblico dei cinefili cui si rivolge in genere l’autore, complici le molte ed efferate scene di violenza che si ripetono con piccole variazioni fino a un epilogo inaspettato e volutamente privo di un vero e proprio climax.

Laura Cotta Ramosino