I primi di marzo del 1953, il segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, e suo leader
supremo, Iosif Stalin (Adrian McLoughlin), viene colpito da un’emorragia cerebrale che lo
porta presto alla morte (comunicata ufficialmente dal governo sovietico il 5 marzo, dopo due
giorni dal decesso effettivo). In questa manciata di giorni, e in quelli successivi, i ministri
dell’URSS e gli uomini più vicini al defunto capo danno il via alla danza delle trame e dei
complotti per accaparrarsi più potere possibile dopo la morte del dittatore.
L’affermato autore e sceneggiatore scozzese Armando Iannucci (di genitori italiani, già
ideatore della serie tv Veep) adatta la graphic novel francese La morte di Stalin (Mondadori), e
porta sul grande schermo le confuse e drammatiche ore, consumatesi nei palazzi del potere,
dopo la scomparsa del leader sovietico più sanguinario della storia. E lo fa con una commedia
dai toni ai limiti del grottesco, che rende in modo magistrale la tragicità dei fatti. Gli odi, i
rancori, le alleanze segrete, i voltafaccia che i dirigenti del partito si scatenano
vicendevolmente, confluiscono nello scontro tra l’abile politico Nikita Kruscev (uno Steve
Buscemi in forma smagliante) e il vendicativo ministro degli Interni e capo della spietata
polizia segreta, Lavrentij Berija (Simon Russell Beale). Le gag esilaranti tra le alte sfere
sovietiche non impediscono al film di trasmettere la drammaticità, l’angoscia e la psicosi che
devono aver caratterizzato il periodo delle grandi “purghe” staliniane, durante il quale bastava
pronunciare una sillaba sbagliata per essere deportati nei gulag siberiani o brutalmente uccisi.
Ma l’intento dell’opera va oltre la descrizione delle lotte per la successione al potere post
Stalin, ed è più universale. È quello di mostrare, in primis il pericolo e il dolore che può causare
il potere quando è concentrato nelle mani di pochissimi, e inoltre quello di scandagliare la
banalità umana – ed è su questo punto che la commedia e la tragedia si fondono
perfettamente – che spesso si cela dietro i volti del potere e la brama per mantenerlo. «Piccolo,
sembra così piccolo», dice Maria Judina (Olga Kurylenko), la pianista preferita (personaggio
reale, e unica nella sua statura morale) ma non ricambiata, da Stalin, di fronte al suo corpo
senza vita nel feretro, a mo’ di epitaffio ideale del dittatore. E in questo senso, forse, il titolo
della versione italiana del film è più azzeccato di quella originale.

Alessandro Giuntini