La felicità può essere trascurabile? Cosa lo è davvero nella nostra vita? E se avessi solo 92 minuti per ritornare sulla terra, cosa faresti, cosa diresti? Se lo chiede Paolo (Pif, per la prima volta protagonista per un altro regista) in Momenti di trascurabile felicità, il nuovo film di Daniele Luchetti, scritto con Francesco Piccolo e ispirato, nella sostanza ma non nella forma, ai suoi due libri (quello omonimo e il suo seguito Momenti di trascurabile infelicità).
Hanno sbagliato a fare i calcoli nell’aldilà, in quel mercato o specie di caotico ufficio dove uomini con divisa kitsch smistano i nuovi arrivi. Si sono dimenticati di contabilizzare le centrifughe (con tanto di zenzero e finocchio), così Paolo può giocare sull’errore e recuperare 92 minuti di esistenza. E anche se i dubbi sui tassisti e sulla loro illogica disposizione quando aspettano i clienti, sul martello frangivetro del treno, sulla luce del frigorifero (si spegne quando si chiude?), sembrano occupare gli ultimi pensieri terreni di Paolo, poi pian piano emerge la dolorosa sorpresa per una morte imprevista tutto si dissolve e si entra nel presente, che sprigiona ricordi e malinconia.
Paolo è un ingegnere, è sposato e ama Agata (Thony), ha due figli, amici di vecchia data. Innamorato con l’eterna difesa e paura (con l’ossessiva frase rivolta alla donna che ama: «Ma ce l’hai con me?»), padre distratto e pigro, amico non troppo generoso, uomo debole da concedersi piccole fughe extraconiugali. Eppure Paolo, nella sua normalità, attaccato dalla figlia adolescente, poco considerato dal figlio dodicenne, porta con sé una nostalgia fortissima che avvolge ciascuno di noi, quando ci fermiamo e ci chiediamo quali siano le cose per cui vale la pena vivere. La porta anche Agata (quanto è struggente e quanto poco esplorata dal nostro cinema Thony) che si muove tra lavoro, vita quotidiana e gestione femminile della casa. Entrambi si cercano, si amano, si sopportano, si vivono.
Nel bel film di Daniele Luchetti (non fatevi condizionare dal trailer poco riuscito) la premessa iniziale, forse densa di troppa ironia, si allarga ed esplora le inquietudini, le gioie e i desideri esistenziali. Non importa se il film non sia del tutto perfetto, se ci sono momenti “trascurabili”; quello che importa è che si entra in un mondo vero, in una Palermo piena di luce e di traffico, dove ognuno di noi si rispecchia, si distanzia, riconosce quello che ha vissuto o vorrebbe vivere e ci si perde. Perché questa è poi l’essenza vera del cinema. È un’arte dove la perfezione è richiesta, dove il talento non può essere mediocre, dove l’industria entra ma solo per servire e rendere popolare un’idea, dove lo spettatore si aspetta qualcosa. Si aspetta, soprattutto, che alla fine del film qualcosa nel cuore e nella mente si sia mosso. È cambiato, è rinato. Qualcosa, che prima del buio in sala non c’era, e ora c’è.
Emanuela Genovese