Sud America, primi anni 70. A seguito di un sanguinoso golpe, un giornalista americano, Charles Horman, viene prelevato dalla propria abitazione da un manipolo di militari. La moglie di Charles, Beth, non riesce a ottenere alcuna informazione sulle motivazioni che hanno portato all’arresto e alla sparizione del marito; inoltre, né l’ambasciata americana né il Governo sembrano voler collaborare per gettar luce sull’accaduto. Sarà solo grazie all’aiuto del padre di Charles, Ed, che la giovane Beth riuscirà a far venire a galla la verità.

Traendo ispirazione dal libro The execution of Charles Horman: an American Sacrifice (1978) di Thomas Hauser, il regista greco Costa-Gavras con Missing rimane coerente a quel forte impegno civile che aveva già contraddistinto le sue pellicole precedenti; si pensi, ad esempio, a film come Z-L’orgia del potere (1969) (vincitrice dell’Oscar per il Miglior film straniero) o La confessione (1970). Poiché la storia narrata si basa su fatti realmente accaduti, il regista a inizio film si premura di sottolineare che sono state camuffate le coordinate spazio-temporali su cui poggia l’intera vicenda e coperte alcune identità, ma le uniformi dei soldati e un particolare ravvisabile negli ultimi fotogrammi della pellicola (non rivelabile, per evitare spoiler) rendono evidente che la storia ha luogo in Cile durante i giorni del golpe di Pinochet. In effetti, il regista non ha mai nascosto le sue simpatie filocomuniste, rese evidenti in quest’opera dalle truci, lunghe carrellate con cui vengono riprese le vittime della dittatura cilena. In effetti, in Missing la denuncia politica non viene condotta solamente a livello narrativo, ma anche visivo: a tal riguardo esemplare è la scena, forse quasi allucinata, in cui un cavallo bianco (simbolo della speranza), inseguito dagli spari dei fucili dei soldati, si lancia al galoppo lungo le strade rese vuote dal coprifuoco.

Come il potere delle immagini risulta degno di nota, allo stesso modo anche la sceneggiatura non è da meno. Il serrato ritmo giornalistico, che riesce ad indignare lo spettatore per la meschinità morale dimostrata soprattutto dal governo americano, ha garantito al regista e a Donald E. Stewart l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Se poi il filone della Storia si rivela caratterizzato esclusivamente dalla denuncia, quello della storia, invece, vuole proporsi come un’intima indagine intergenerazionale, la quale, pur dai toni melodrammatici, non rischia mai di scivolare nel sentimentalismo fine a sé stesso. In altri termini, se nei confronti dell’omertà del governo americano e delle crudezze esercitate della dittatura di Pinochet non si possono che esprimere parole di accusa e di disprezzo, la scomparsa del giovane freelance consente invece al religiosissimo padre di imbastire una messa in discussione dei propri valori conformisti per accogliere (o per lo meno, provare a comprendere) quelli nuovi, rappresentati dagli ideali di sinistra del figlio e della nuora. Il discrimine tra i due mondi è evidente: il console Putnam si impegna ad archiviare il caso per mascherare le responsabilità (e gli interessi) degli Stati Uniti nei confronti della sparizione del giovane, mentre in un flashback privatissimo un gioioso e a tratti ingenuo, ma mai pericoloso Charles viene mostrato dare libero sfogo ai suoi ideali di fratellanza e di sostegno del più debole. In un mondo dominato dal capitalismo statunitense, disposto a non occuparsi dell’incolumità dei suoi cittadini pur di proteggere la Nazione e la supremazia del dollaro, Missing si prefigge lo scopo, invece, di difendere la libertà di pensiero che, quando innocua, mai dovrebbe mettere in pericolo l’incolumità del singolo.

Se un po’ debole risulta essere il confronto nuora-suocero, basato forse eccessivamente sul luogo comune che vuole queste due categorie in eterno conflitto, magnifica è invece l’interpretazione che Jack Lemmon (premiato per la sua prova al Festival di Cannes, dove il film vinse anche la Palma d’oro) offre di Ed, e che raggiunge i suoi vertici soprattutto nella commovente scena finale ambientata in aeroporto, nella quale, pur senza versare una lacrima, il vecchio padre scarica la propria rabbia nei confronti del cinico ed egoistico sistema americano. Buona, anche se alle volte forse troppo influenzata da quella generica aria di ribellione che caratterizzava i giovani degli anni 70, la recitazione di Sissy Spacek (nominata all’Oscar). Mentre degna di nota, oltre alla già menzionata bella fotografia di Ricardo Aronovich, la delicata e melanconica colonna sonora del greco Vangelis.

Beatrice Bucca