Un uomo di successo si alza tutti i giorni per accompagnare il figlio a scuola e andare a lavorare nel suo studio di avvocato. Sua moglie è in coma dopo un terribile incidente, e tutti coloro con i quali egli ha a che fare durante la giornata lo compatiscono, dimostrando attenzioni e riguardi verso la sua condizione. Egli si crogiola nel suo dolore e gode della pietà altrui, trasformandola in ragione di vita e felicità. Quando però la moglie si sveglia dal coma e tutto torna alla normalità, l’uomo non riesce a capacitarsi dell’improvviso disinteresse del mondo verso la sua noiosa esistenza: come tornare a vivere quando gli altri non hanno più pietà di te?

C’è un intero filone di cinema greco che, negli ultimi anni, sembra voler assumere su di sé tutto il peso della crisi economica ed esistenziale che la sua popolazione sta affrontando con grandissima fatica e notevoli rischi di giungere a un punto di non ritorno. Lo spaesamento è profondo, l’insufficienza dell’uomo moderno nei confronti dei terremoti finanziari e valoriali è abissale, il cinema percorre questi sentieri facendo muovere i suoi personaggi verso una nullificazione del soggetto che appare incontrovertibile. Le direttrici sono evidentemente quelle delle più caustiche opere di Yorgos Lanthimos, nel segno delle quali si inserisce questo nuovo film di Babis Makridis: Miserere è infatti co-scritto proprio dall’abituale sceneggiatore di Lanthimos, Efthymis Filippou, capace di donare ai suoi personaggi sfumature di crudeltà e disperazione tra le più inquietanti viste sullo schermo nell’ultimo decennio.

Il protagonista della vicenda è un uomo senza nome ma di grande successo nel campo dell’avvocatura: ogni mattina sul bordo del letto piange la condizione della moglie, mentre la sua identità è definita unicamente dallo sguardo di compatimento che gli altri gli rivolgono a causa della sua sofferenza. Parla poco, anzi pochissimo, e quando si esprime a parole ciò che comunica è il disperato desiderio di compiacimento di un uomo attaccato al proprio ego al punto tale da non vedere lo stato nevrotico nel quale si è inabissato. Il suo distacco dal mondo reale passa attraverso le strutture narrative, nella forma delle numerosissime didascalie che inframezzano le scene, quasi a voler significare che la verità del personaggio si trova in punti talmente oscuri del suo inconscio da non poter essere trasposta in immagini. Scelta artistica tutto sommato legittima, se non fosse che nel momento in cui Makridis si dedica al cinema, quello vero, ha talmente tanto poco da dire da annoiare lo spettatore tanto quanto il narcisismo del suo protagonista: se la ripetizione continua di scene quasi identiche e gesti ossessivi voleva essere manifestazione di un’annunciata deriva psicotica, il regista da parte sua si compiace della perfezione della sua idea al punto tale da farla risultare alla fin fine posticcia e ben poco innovativa.

Lo spunto originario era infatti tutt’altro che banale, e metteva sul tavolo il serissimo problema dell’uomo contemporaneo incapace a vivere nel – e oltre – il proprio dolore. Il fatto è che a girarci intorno senza mai entrare nel loro punto più vivo, le idee restano tali e mai prendono forma compiuta: non si tratta soltanto di voler dare una risposta a una domanda esistenziale – “come si fa a vivere senza un dramma a cui aggrapparsi?” – quanto piuttosto di sviluppare la questione cercando di delineare spunti e sfaccettature nelle quali lo spettatore possa trovare un momento di riflessione sul tema. Invece le pur caustiche – e talvolta geniali – battute si tengono sempre su un tono di posa volutamente esasperante e finiscono per esaurirsi in sé stesse, lasciando lo spettatore escluso da qualsiasi possibilità di partecipazione al gioco. Perciò non si resta affatto sopresi quando, a seguito del risveglio della moglie dal coma, il film non fa altro che ritornare su se stesso, come se avesse esaurito tutti i numeri disponibili per la rappresentazione del proprio teatrino.

Praticamente giunto alla fine senza mai essere davvero iniziato, nella conclusione della sua parabola narrativa Miserere trova una soluzione piuttosto prevedibile, divergendo qui dal più stimolante cinema di Lanthimos: per quanto molesto e afflitto in parte dagli stessi problemi, le visioni del collega greco sono quanto meno quasi sempre capacissime di scioccare proprio in quei punti nei quali le si immaginava più facilmente riducibili agli stereotipi. Qui invece gli approdi della storia sono ancor più deludenti se si pensa alle grandi speranze di sconvolgimento instillate nello spettatore sin dall’apertura dell’opera. Il tutto viene poi contornato da una fotografia pulitissima e spesso giocata in un eccesso di luce, che si contrappone con l’oscurità dell’assunto che il film cerca di portare avanti e lo doppia per antinomia. C’è insomma un controllo esasperato e un certo eccesso di mestiere nel film di Mankridis, nel quale peraltro l’ottimo lavoro dell’attore protagonista Yannis Drakopoulos finisce addirittura per scomparire dietro il compiacimento per la bravura da parte del suo autore: in essi e alla loro origine, come spesso accade, una sostanziale immaturità nel trattamento dei materiali e troppa consapevolezza sugli strumenti della propria arte; caratteristiche che se smussate, in un senso e nell’altro, potrebbero schiudere enormi possibilità di successo per un regista innegabilmente talentuoso.

Maria Letizia Cilea