Vincent ha 16 anni, ne dimostra meno ed è un ragazzo autistico che crea tanti problemi, che la madre e il suo compagno riescono ad arginare a fatica. All’improvviso spunta il padre del ragazzo, che aveva abbandonato la propria donna proprio quando nacque Vincent: Willi, cantante da balera e da matrimoni noto soprattutto in Slovenia e Croazia dove viene chiamato il “Modugno della Dalmazia”, non sa nemmeno com’è il figlio; e sulle prime la sua disabilità lo sconvolge. Ovviamente non viene accolto con i fiori dalla donna che fu lasciata senza neanche un saluto. Ma Vincent, scoperto il vero padre (che per un equivoco chiama “Willipoi”), si nasconde nella sua auto e parte con lui per una tournèe che diventerà il loro primo viaggio insieme.

Presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2019, Tutto il mio folle amore è tratto molto liberamente da una storia vera raccontata dal romanzo Se ti abbraccio non avere paura di Fulvio Ervas e adattato per il cinema con la sceneggiatura di Umberto Contarello e Sara Mosetti: il 18° film del 69enne Gabriele Salvatores è un classico road movie, dove il viaggio – come da canone – permette di far evolvere il rapporto tra i protagonisti, in questo caso il padre che si fa vivo per la prima volta dopo 16 anni e il figlio che lui non aveva voluto veder crescere; e la relazione tra padre e figlio è un altro grande classico del cinema. Un punto debole dell’opera, però, è che non riesce a trasformare completamente i tre attori principali nei loro personaggi, in particolare Valeria Golino e Diego Abatantuono: rispettivamente Elena, la madre abbandonata; e Mario, l’uomo che la sposò anni dopo, diventando così padre di Vincent. Meglio Willi, ovvero Claudio Santamaria che, oltre a confermarsi ottimo anche come cantante (fra l’altro il titolo del film è proprio tratto da un verso di una canzone di Modugno scritta da Pasolini), rende con finezza questo uomo che ha un tardivo soprassalto di responsabilità e che grazie a quel viaggio potrà conoscere il figlio e imparare a volergli bene e a farsi amare: anche se pure il suo personaggio ha una serie di pecche, a cominciare proprio dall’improvviso e non spiegato ritorno di Willi da Elena e da Vincent; personaggio comunque a tratti parecchio stereotipato, con gli eccessi tipici dell’uomo immaturo e incosciente.

Ma è soprattutto la sceneggiatura a non convincere tra dialoghi a volte debolissimi («non è la vita che mi ero immaginata» dice la madre di Vincent; «ti devi accettare» risponde il marito…) ed episodi inutili o sopra le righe, mentre alcuni personaggi laterali, anche potenzialmente interessanti, sembrano infilati a forza per “fare colore”. Con un sospetto di generale retorica – grazie anche alla colonna sonora – che dovrebbe coprire con i sentimenti le lacune di scrittura e della storia. E se tra padre e figlio comunque qualche momento discreto il film riesce a sfornarlo, con Santamaria che conferma di aver presenza scenica e voce da cantante già utilizzata in passato (per esempio come Rino Gaetano in una miniserie tv), il vero punto di forza è la prova del giovane Giulio Pranno, per la prima volta al cinema, così bravo – nel fare il “matto”, nelle esplosioni di riso e negli improvvisi mutismi, ma anche nel modo di parlare assolutamente credibile – da averci fatto dubitare che avesse qualche forma di disabilità (non sarebbe stata la prima volta). Davvero una performance notevole la sua (ci ha ricordato quella di un Di Caprio diciottenne nell’ormai lontano Buon compleanno Mr Grape), ed è sicuramente anche un grande merito di Salvatores, non nuovo a scoperte di giovanissimi e molto bravo a tirarne fuori le capacità. Peccato che il film, complessivamente, all’altezza della sua prova. Che comunque, come si suol dire, vale il prezzo del biglietto.

Antonio Autieri