Mike e Tommy, due soldati e due amici. Sono nel deserto sahariano, impegnati in una delle tante guerre in giro per il mondo: una delle tante in cui l’esercito americano è presente in qualche modo. Sono alla ricerca di un terrorista: all’arrivo di un ordine, il cecchino Mike dovrà sparare su un leader pericoloso. Arriva il presunto capo, ma anche tanti civili: quello è un matrimonio, protesta Mike, e ci sono troppe vittime collaterali innocenti. E forse quello non è nemmeno un capo terrorista. Il blitz sfuma, ma i due soldati da cacciatori diventano prede e devono scappare. Si troveranno, dopo aver attraversato una tempesta di sabbia, in mezzo al deserto. In attesa di soccorsi, lontanissimi (bisogna aspettare almeno 52 ore, se non di più), senza cibo e con pochissima acqua. E con il brutto sospetto che quella sia un’area minata, dopo quarant’anni di guerre e milioni di bombe nascoste sottoterra. Per Mike, che rimarrà solo, la prova diventa insostenibile.
L’inizio è veloce e pieno di tensione, il prosieguo sembra l’esatto contrario – succede poco, quasi sempre con un solo attore in scena – ma la tensione non si attenua. Anzi. L’esordio della coppia di registi italiani Fabio Guaglione e Fabio Resinaro – già apprezzati come sceneggiatori per film altrui e cortometraggi – per di più in un film che ha poco di italiano ma è un progetto internazionale, sembra ricordare all’inizio un film dello stesso produttore spagnolo Peter Safran: Buried, ancora più angosciante, con Ryan Reynolds da solo in scena, chiuso in una bara… Qui da solo, quasi sempre – il soldato fa strani e surreali incontri con un berbero e con la sua bambina, e poi vede nelle allucinazioni crescenti una serie di persone a lui care o episodi della sua vita – nei panni di Mike c’è Armie Hammer, buon attore dal solido curriculum (faceva i due gemelli in Social Network, e poi ha recitato in Operazione Uncle, ecc. ed era il protagonista di Lone Ranger) qui nella prova più convincente. Una grande performance, che ricorda altre analoghe più o meno solitarie (da Cast Away a Gravity, da Moon a Locke): dal suo volto passano tutti i sentimenti possibili. La paura, anzi tutto (ci sono bestie feroci che lo assaltano di notte, e c’è sempre il rischio che bande di predoni o di terroristi tornino a farsi vedere), ma anche il coraggio di resistere, i sensi di colpa per le pagine oscure della sua vita (pur essendo un uomo buono e leale) e i dubbi sulle decisioni da prendere. Personaggi veri o immaginari, visioni o ricordi, tutto può aiutarlo a sopravvivere oppure congiurare per farlo arrendere. Ma anche da un male può venire un bene, gli dice il berbero – che vuol dire “uomo libero”, come gli fa notare con orgoglio – che prima sembra irriderlo, poi lo sostiene e lo aiuta in più modi. Dicendogli le cose giuste.
Quello che piace di Mine è che alla tensione, al ritmo e alla definizione dei caratteri, si aggiunge man mano il fil rouge del rapporto con una fidanzata che lui non si decide a prendere in moglie (per motivi legati al passato della sua famiglia: già prima di partire in guerra era un uomo “bloccato”) che supera il già visto grazie al gioco – tra loro due – del cavaliere e del suo giuramento alla principessa. Una bella trovata che regala un quid di epico e di valoroso a un’impresa che non si riduce alla solita retorica militaresca o virile. Anche perché questo cavaliere senza macchia e senza paura – perché Mike è davvero un’anima pura – in realtà di macchie e di paure ne ha eccome. Un gran bel personaggio, che difficilmente si dimentica, per una storia che sembra inizialmente un buon film di genere originale – ma non è neanche quello, il punto: c’era anche un film francese simile in giro, anche se la genesi di Mine è stata lunga – e che man mano svela una sua natura più complessa e profonda.
Antonio Autieri

Mine
Un soldato americano è bloccato nel deserto, con un piede su una mina