Scritto da Dustin Lance Black, Milk ha il pregio di non voler piacere a tutti i costi, di non essere cioè né furbo né ruffiano. Efficace è la ricostruzione storica che, grazie anche a inserzioni di filmati d’epoca, immerge lo spettatore in maniera accattivante nella San Francisco degli anni Settanta. Qui, precisamente nel quartiere di Castro, iniziò la marcia non lunga di Harvey Milk (1930-1978), che cominciò dalla strada – e dalla difficoltà ad aprire un esercizio commerciale vincendo la diffidenza discriminatoria della gente del quartiere – e terminò con l’elezione (dopo tre tentativi andati a vuoto) alla carica di consigliere comunale. La parte più interessante della storia è proprio quella che racconta la scalata al successo del protagonista: in questo racconto infatti trova spazio la descrizione del funzionamento della macchina politica, e la sceneggiatura è onesta nel mostrare Milk come un uomo scaltro non privo di cinismo, che questo funzionamento dimostra di conoscerlo bene. Con altrettanta onestà, il film non nasconde la presenza negli Stati Uniti, già dagli anni Settanta, di lobby di omosessuali che gestiscono un certo potere (ma con cui Milk non riesce a entrare in sintonia, perché a loro – più attendisti – interessa vincere la guerra, mentre a lui le battaglie una alla volta). L’alone di “martirio”, però, è un po’ esagerato: l’assassino di Milk, collega in consiglio comunale, nutrirà anche dei pregiudizi su di lui ma a lungo cerca sponde politiche e alleanze su battaglie comuni. Alla fine, quindi, si tratta più che altro di un frustrato e di un depresso (si suiciderà pochi anni dopo la scarcerazione) che si scaglia contro Milk – ma anche contro il sindaco, altra sua vittima – per vendicare la sua emarginazione politica e non le conquiste degli omosessuali. La sceneggiatura, infatti (premiata con un esagerato Oscar, insieme alla statuetta a Sean Penn come miglior attore), costringe lo spettatore che non la pensi “come la traccia” a restare senza bussola all’interno della narrazione: chi non sposa la causa di Harvey Milk, sullo schermo o in platea, ha quasi l’obbligo di sentirsi in malafede. Quella di Milk, per essere chiari, non è solo una lotta – quella sì, sacrosanta – contro discriminazione e violenza, ma anche una battaglia, giocata su terreni ben più accidentati, non risolvibile mettendo sullo scacchiere coloro che hanno ragione da una parte e coloro che hanno torto dall’altra, nei colori contrapposti e demarcati del bianco e del nero. ,Né aiuta la descrizione della vita privata del protagonista, dove il film suona più di una nota fuori dal pentagramma: a indebolire la figura del Milk pubblico, e a renderla poco comprensibile a chi non fosse già “schierato a favore”, è proprio il ricorso a un repertorio di cliché un po’ stantii. Non c’è profondità nei legami tra i personaggi e sembra davvero di rivedere tutti i luoghi comuni sull’amore dei peggiori film, solo modulati in chiave gay. Il rischio è sempre quello dell’ambiguità, che in un film biografico è quasi un peccato mortale.,

Raffaele Chiarulli