La letteratura è una miniera senza fondo per il cinema. E poche volte il cinema italiano (spesso anche quello internazionale) ha saputo esplorare bene il territorio letterario restituendo valore e profondità alla storia. Non è il caso di Martin Eden, quarto film, ma primo interamente di finzione, di Pietro Marcello, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Jack London. Non siamo ad Oakland, in quell’America lontana dal nostro immaginario, ma siamo in una Napoli novecentesca dove vive, quando non naviga per acque lontane, Martin Eden (interpretato da un sempre più bravo Luca Marinelli, fresco vincitore della Coppa Volpi a Venezia 2019). Giovane marinaio affascinante e squattrinato, Martin vive a casa della famiglia della sorella, incolta ma desiderosa di aiutare suo fratello. Legge e scrive usando indebitamente (come sostiene il cognato interpretato da Marco Leonardi) la luce elettrica, costosa e preziosa. Quando un giorno difende un ragazzo picchiato da un uomo violento, Martin viene accolto nella sontuosa villa della sua famiglia. Il ragazzo è un Orsini e ha una sorella bellissima, Elena (Jessica Cressy). Martin se ne innamora subito come si innamora dei libri che lei ha e che lei decide di regalargli. Inizia così la sua lenta, faticosa, immersione nello studio anche della grammatica e in quella che è la sua passione più vera, la scrittura. Non è nessuno Martin, ma ha il gusto della riflessione, l’esuberanza del novizio e la forza della costanza.
Profondo, mai banale (anche nella scelta dei materiali d’archivio, di vari periodi del secolo scorso, incastrati perfettamente in quelle scene), Martin Eden è un film che non si dimentica facilmente. Riguarda tutti noi, i nostri nonni e i nostri genitori perché sa scavare dentro quel necessario e innato desiderio, senza tempo, di trovare il proprio posto nella vita.
Martin, poi, non misura e calcola, comprende spesso le persone umili che ha al suo fianco, è generoso e onesto nelle parole e nelle azioni. Non gli interessano le istanze ideologiche della borghesia industriale e del socialismo perché entrambe ragionano unicamente con parametri economici e sociali e tendono a dimenticare chi è l’uomo e quali sono i suoi desideri e i suoi timori più profondi. Desideri e timori che invece vengono accolti, mai sublimati anzi a volte criticati, da Russ Brissenden (il bravo Carlo Cecchi): Martin è un uomo che sa, suo malgrado, cosa significa vivere e dipendere economicamente dagli altri.
Anche se la fedeltà allo spirito del romanzo rimane una giusta aspirazione del regista, l’evoluzione – involuzione del protagonista è troppo rapida e brusca. E amara, ma fino a un certo punto. Non scalfisce, infatti, l’ammirazione per questo lavoro del regista Pietro Marcello (da rivedere sono i suoi due primi lungometraggi: Il passaggio della linea e La bocca del lupo) e del suo sceneggiatore Maurizio Braucci (scrittore di romanzi e di film come Gomorra di Matteo Garrone e Anime Nere di Francesco Munzi). Entrambi dimostrano di saper trasformare un capolavoro letterario in un piccolo grande film.
Emanuela Genovese